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piccola posta

Che paradosso, darla vinta all'uniformazione maschile "gli" al posto di "le"

Adriano Sofri

La riluttanza a modificare un’abitudine così radicata sarà pure un conservatorismo senile, ma in questo caso ha dalla sua una distinzione di genere anticipatrice di desideri attualissimi

Non riesco a tener dietro alla velocissima, e spesso preziosa, evoluzione del linguaggio, e sono combattuto fra il proposito di corsi di recupero, che mi aggiornino almeno un po’, per non farmi sfigurare o fraintendere, e la decisione che per me sia tardi e che convenga tenersi le proprie abitudini, badando a non offendere i sentimenti altrui. Il fatto è che ieri, nella pagina di una donna che scrive per professione, ho trovato di nuovo l’uso di “gli” nel complemento di termine, riferito a un soggetto femminile, invece che “le”. So che “gli” (“li”) ha un’antica accezione per ambedue i generi, corrispondendo al dativo latino “illi”, che era sia maschile che femminile (e neutro). Nel corso del tempo però si era distinta la forma maschile da quella femminile, “le”, che peraltro è ben testimoniata in Dante. E la distinzione era diventata via via più pregnante, soprattutto nella lingua scritta, e così era stato nella mia istruzione materna e scolastica. Ora, la riluttanza a modificare un’abitudine così radicata rientrerà pure in un conservatorismo senile, ma in questo caso ha dalla sua una distinzione di genere grammaticale anticipatrice di desideri attualissimi, e non si vede perché darla vinta a un’uniformazione al maschile “gli”. Come che sia, poiché anche occhio e orecchio vogliono la propria parte, a me la frase: “Ho incontrato Natalia Aspesi, e gli ho regalato una rosa”, mi fa digrignare i denti. 

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