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piccola posta

Affrontare la galera con un accenno di finta e un tiretto nell'angolo

Adriano Sofri

I giovani immigrati in carcere tifano la Nazionale, con l'oltranzismo dei neofiti e di chi vuol farsi accettare. Per loro la buona notizia è essere in Italia. Di persone così, un paese intelligente potrebbe fare un uso prezioso. 

In questi giorni tutto puzza di carcere, e chi l’abbia conosciuta  ne è di nuovo soffocato, diversamente che nei giorni ordinari, in cui l’invadenza della galera si accontenta di stare in  agguato nei sogni. Però c’è anche il ben che vi trovai, e mi è tornato un ricordo mentre guardavo la partita con la Spagna e poi l’esultanza (si chiama così, parola ormai riservata alle Beatitudini e ai gol, oltre a Michele Serra che ci scrisse un libro) di calciatori pubblico e tifosi tutti. In galera, quando giocava la Nazionale, l’esultanza per i suoi gol e i suoi successi era clamorosa, come può esserlo quella di gente reclusa in gabbia: dunque alte grida culminate in battitura di pentolini sulle sbarre – un cacerolazo di poveri.

Quella manifestazione di esultanza mi sorprendeva dapprima, perché la gran parte dei miei coinquilini del piano terra si componeva di giovani stranieri, degli stranieri poveri e giovani detti extraeuropei, maghrebini i più, e anche africani di sotto il Sahara. Mi servì a capire che voglia di identificazione, di riconoscimento, animasse quei giovani. Avevano traversato deserti e mari per arrivare, adesso erano in galera, per futili motivi, diciamo così, e lo prendevano come un ulteriore passaggio prima di approdare alla nuova vita e ai nuovi documenti che avevano sognato. Si erano scelti ciascuno una squadra italiana, e tutti insieme la Nazionale, e facevano un tifo oltranzista, com’è dei neofiti e di chi vuol farsi accettare. Alcuni di loro, imparai, nelle rare e brevi telefonate a casa cui venivano autorizzati, raccontavano di essere in Italia, e in quella città, e di imparare la lingua, e altre notizie generiche sulle difficoltà dei primi tempi e dell’ambientazione, senza dire che erano in galera. Erano in Italia, era la buona notizia.

Mi dicevo che di giovani così un paese intelligente avrebbe potuto fare un uso prezioso. Sono passati tanti anni, non è andata. Lunedì sera, dopo l’ultimo rigore di Jorginho – così bisognerebbe affrontare la galera e la vita, giovani stranieri, un accenno di finta e un tiretto nell’altro angolo – ho provato a immaginare l’esultanza di un piano terreno di un vecchio carcere, della sua inesorabile puzza e del suo eventuale frastuono. 

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