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Il tempo passa e il rap cambia, ma Eminem resta sempre un genio maledetto

Stefano Pistolini

“Music to be Murdered By”, l’America vista dalla parte sbagliata

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Eminem è finito così fuori moda, che potrebbe essere sul punto di tornare cool. Non adesso. Non con questo nuovo disco. Magari col prossimo. “Music to be Murdered By”, undicesimo titolo della sua produzione, verrà ricordato come un’uscita del periodo buio e dell’ispirazione stagnante. Poi si vedrà, se il proseguire della carriera di Em svolterà verso il new sunrise o il fade to gray. Una cosa va detta: quando a un minuto dall’inizio entra in scena il suo rapping, è ancora un sussulto. La voce di Slim Shady, il timbro dispettoso e nasale, il fiotto d’ansia che l’accompagna, l’immediata aria di guai, è un marchio indelebile nella storia di questa musica. Idem per la quantità di parole che mitragliano l’ascoltatore. Una pioggia di storie, personaggi, facce, destini, tutti iscritti alla corsa del topo nella parte sbagliata dell’America, di cui Eminem da subito s’è fatto cronista. La sensazione è che ormai per lui la questione tecnica/virtuosistica del rap abbia ricoperto la frustrazione provocata dai vuoti di effettiva intenzione e focalizzazione. Quantità per qualità: il numero di parole pronunciate e gli sbalorditivi tricks con cui flette l’ugola esplodendo gragnuole di vocaboli, sono il primo impatto con questo lavoro – che si rivelerà un ascolto non agevole, di un Eminem non placato. Lui intanto s’è vestito da undertaker, da becchino, sulla copertina rosso sangue di questo disco traboccante di 22 tracce, quasi tutte in area di dissing, di sputtanamento di vicende mal digerite. In “Premonition” il bersaglio sono coloro che lo criticano per i toni acidi delle sue canzoni. Dal secondo pezzo, poi, comincia la sfilata degli ospiti che popolano l’album, tutti giovani adepti arrivati intanto al successo per conto loro: Young M.A, il grande Anderson .Paak, Royce Da 5’9”, KXNG Crooked, Juice WRLD (già passato a miglior vita per un attacco epilettico a 21 anni). Qui, a dispetto che le collaborazioni prendano forma su pezzi dallo svolgimento musicale il più delle volte piatto, arriva un effetto interessante di “Music to be Murdered By”: il confronto tra il 47enne reduce della caduta di Detroit (nel frattempo decentemente risorta) e la nuova generazione d’interpreti rap. Salta agli occhi una differenza di registro che racconta di un’evoluzione culturale e attitudinale: per Eminem il rap è ancora teatro, messinscena, esposizione del talento, fino al punto da strumentalizzare il discorso, sommergendolo con trovate linguistiche. Per i suoi rilassati eredi, il rap sembra essere naturalezza, linguaggio assunto, espressione primaria. Flusso, appunto. Dunque flusso agli steroidi (Em), contro flusso come appartenenza. La lezione è che il tempo passa, le cose cambiano, e Marshall Mathers, a dispetto del disagio perenne, è un classico accertato, il memento di un suono, ma anche il suo passato, non fosse che non sa stare fuori dall’arena, perché sennò si sente morire. 

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Eminem è finito così fuori moda, che potrebbe essere sul punto di tornare cool. Non adesso. Non con questo nuovo disco. Magari col prossimo. “Music to be Murdered By”, undicesimo titolo della sua produzione, verrà ricordato come un’uscita del periodo buio e dell’ispirazione stagnante. Poi si vedrà, se il proseguire della carriera di Em svolterà verso il new sunrise o il fade to gray. Una cosa va detta: quando a un minuto dall’inizio entra in scena il suo rapping, è ancora un sussulto. La voce di Slim Shady, il timbro dispettoso e nasale, il fiotto d’ansia che l’accompagna, l’immediata aria di guai, è un marchio indelebile nella storia di questa musica. Idem per la quantità di parole che mitragliano l’ascoltatore. Una pioggia di storie, personaggi, facce, destini, tutti iscritti alla corsa del topo nella parte sbagliata dell’America, di cui Eminem da subito s’è fatto cronista. La sensazione è che ormai per lui la questione tecnica/virtuosistica del rap abbia ricoperto la frustrazione provocata dai vuoti di effettiva intenzione e focalizzazione. Quantità per qualità: il numero di parole pronunciate e gli sbalorditivi tricks con cui flette l’ugola esplodendo gragnuole di vocaboli, sono il primo impatto con questo lavoro – che si rivelerà un ascolto non agevole, di un Eminem non placato. Lui intanto s’è vestito da undertaker, da becchino, sulla copertina rosso sangue di questo disco traboccante di 22 tracce, quasi tutte in area di dissing, di sputtanamento di vicende mal digerite. In “Premonition” il bersaglio sono coloro che lo criticano per i toni acidi delle sue canzoni. Dal secondo pezzo, poi, comincia la sfilata degli ospiti che popolano l’album, tutti giovani adepti arrivati intanto al successo per conto loro: Young M.A, il grande Anderson .Paak, Royce Da 5’9”, KXNG Crooked, Juice WRLD (già passato a miglior vita per un attacco epilettico a 21 anni). Qui, a dispetto che le collaborazioni prendano forma su pezzi dallo svolgimento musicale il più delle volte piatto, arriva un effetto interessante di “Music to be Murdered By”: il confronto tra il 47enne reduce della caduta di Detroit (nel frattempo decentemente risorta) e la nuova generazione d’interpreti rap. Salta agli occhi una differenza di registro che racconta di un’evoluzione culturale e attitudinale: per Eminem il rap è ancora teatro, messinscena, esposizione del talento, fino al punto da strumentalizzare il discorso, sommergendolo con trovate linguistiche. Per i suoi rilassati eredi, il rap sembra essere naturalezza, linguaggio assunto, espressione primaria. Flusso, appunto. Dunque flusso agli steroidi (Em), contro flusso come appartenenza. La lezione è che il tempo passa, le cose cambiano, e Marshall Mathers, a dispetto del disagio perenne, è un classico accertato, il memento di un suono, ma anche il suo passato, non fosse che non sa stare fuori dall’arena, perché sennò si sente morire. 

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Quando a metà disco arriva “Darkness” la faccenda ha un’impennata. Nel pezzo, scelto come singolo e videoclip (regia di James Larese), Eminem impersona Stephen Paddock, il responsabile nel 2017 a Las Vegas della più sanguinosa strage nella storia degli States, sparando all’impazzata dalla camera d’albergo sulla folla raccolta là sotto per un concerto country. Con un salto narrativo, Eminem interpreta lui ma anche se stesso, l’artista eternamente insicuro, divorato dai demoni, in un’allegoria di rabbia, dolore, violenza. Il paragone è strano e il messaggio è che la confusione induce alla disperazione. E che il guaio è serio se ci sono armi da fuoco a portata di mano, e non solo vodka e psicofarmaci. Il brano non ha la verbosità degli altri, è solenne, kitsch e melò. L’appello di Eminem contro la circolazione delle armi è sacrosanto, ma pronunciato da lui suona sconcertante, come una scusa non richiesta. Del resto i ravvedimenti spuntano anche altrove in questo album, come nei confronti di Tyler, The Creator, a suo tempo oggetto di sue liriche omofobe. E al tempo stesso, in questo pastiche senza progetto, non mancano fiotti di misoginia old style, come in “Those Kinda Nights”, insulso duetto con Ed Sheeran, in cui Eminem si vanta di conquiste sessuali sul genere di quelle che hanno portato in tribunale gli orchi del #MeToo. La morale? Eminem è incasinato, come sempre durante la sua vita. Certo, adesso è ricco e vecchio, per essere un rapper. Il fatto è che resta una forza della natura. E che nessuno è come lui. Per quanto sia caotico, pretestuoso, smargiasso e senza scopo. 

 

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