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Il commento

Quello che non sapete sui giovani e la moda

Gianluca Cantaro

La gen Z non è attirata da nessun marchio, ha perso la fascinazione nei riguardi dell'esclusività dei brand e sta riscrivendo le priorità sempre meno legate al prodotto ma concentrate sulla persona. Per i nativi digitali meglio il vintage o gli sconosciuti

Se fate parte di chi crede che i giovani siano individui senza idee e ideali, sempre attaccati ai loro mezzo tecnologici, vi sbagliate di grosso. Anche se possono sembrare privi di punti di vista e in balia del fiume di informazioni di cui sono (e siamo) inondati, hanno idee molto chiare che però le generazioni precedenti non vogliono o non riescono a decodificare. Se l'appunto che si potrebbe muovere loro è quello di avere una conoscenza frammentata e a volte superficiale, sicuramente la colpa più manifesta è quella degli adulti che li criticano, additandoli come poco interessati e parlando loro con un linguaggio (azzarderei lingua), a loro non più comprensibile. Come se qualcuno si ostinasse a spiegarvi qualcosa usando l'italiano dei tempi di Dante Alighieri. La Gen Z, per esempio, che ai più appare come una popolazione misteriosa e che, soprattutto per la moda, è il nuovo eldorado economico, non potrà mai essere compresa a fondo se non ci si conversa direttamente. Il suo agire ondivago, a prima vista senza riferimenti culturali, in realtà ha direttive proprie e un nuovo modo di esprimersi. Se per chi ha vissuto sia il pre sia il post internet esistono capisaldi fatti di brand, di storie e di nomi che abbiamo vissuto direttamente o di cui abbiamo letto, per loro nulla di tutto questo è realmente accaduto, se non è stato adeguatamente digitalizzato. La domanda che sento rivolgere più spesso è: "Ma come facevate senza e-mail e web?". La scarsezza di notizie e immagini che ci permetteva di scoprire una nuova collezione come fosse una rivelazione divina dopo mesi di attesa, oggi è un concetto sconosciuto. Sognare gli abiti visti sulle pagine delle riviste patinate non ha senso per chi è nato con dispositivi che permettono trasmissioni live istantanee, di comprare con un click e di ottenere foto di altissima qualità che talvolta, se chi le scatta è dotato di gusto e di abilità comunicativa, diventano un viatico per essere chiamato a collaborare con le riviste patinate che aveva snobbato fino a quel momento.

   

Questa è, in breve, la storia triste (e nota) della moda contemporanea che non ha più una direzione, ma resta critica verso i nuovi che ce l'hanno e che goffamente prova a inseguire o, peggio ancora, rifiuta di capire. Invece dietro questi "alieni" c'è un mondo da scoprire che trovo eccitante, entusiasmante, sfidante e rivoluzionario. Poi, possiamo parlare finché vogliamo di qualità e professionalità che si abbassano, ma dobbiamo renderci conto che il mondo, le necessità, i desideri, il modo di stringere relazioni sono cambiati e che non sono i giovani a doversi adeguare al nostro passato, ma noi al loro futuro. È sicuramente possibile tenere alta la qualità, ma per insegnarlo ai ragazzi, vincendo a volte la loro resistenza e diffidenza verso chi rappresenta stereotipi non più attuali, si devono mettere loro a disposizione strumenti che non hanno e che, continuando a voltare lo sguardo altrove, nessuno mai darà loro. Un compito di media, brand, scuole che finora è stato largamente disatteso.

  

Ma proviamo a definire anche il concetto di qualità nella moda oggi. Se un tempo era sinonimo di eccellenza manifatturiera frutto delle sapienti mani artigiane e conoscenza (in ogni ambito), oggi sembra essere soltanto il raggiungimento della coolness a discapito dell'effettiva eccellenza del prodotto. Quindi se un tempo, per esempio, i prezzi di certi abiti e accessori erano giustificati, oggi forse lo sono meno. Prendiamo il caso della ricerca sulla proprietà intellettuale, cioè sulla contraffazione, fatta dalla UE di cui ha scritto anche “Il Foglio” qualche settimana fa: il trentasette per cento dei giovani fra i quindici e i ventiquattro anni ammette di aver comprato consapevolmente qualche accessorio non originale nei precedenti dodici mesi (nel 2019 era il quattordici per cento). Il motivo principale è dettato dal prezzo, e la nota interessante è che oltre un terzo degli intervistati ha dichiarato che smetterebbe di comprare i falsi se il prezzo degli originali scendesse. Salta all'occhio come il discorso della proprietà intellettuale e soprattutto della sostenibilità (i falsi spesso sono prodotti in maniera meno sostenibile rispetto agli originali) siano temi che non rientrano nella loro conversazione, anche se, dall'altro lato, parlando con le nuove generazioni questo è un argomento molto sentito. I giovani non sono così sensibili alla produzione più o meno eco-friendly dei grandi brand soprattutto perché sono sempre più consapevoli del greenwashing di molte aziende del lusso, ma al contrario prendono a cuore le piccole realtà indipendenti, ormai impossibili da catalogare perché polverizzate su tutto il territorio mondiale, alle quali sentono di appartenere per un senso di comunità che nasce dal basso. Anche l'esplosione del vintage, del riuso, che è stato ribattezzato con l'espressione pre-loved (un po' ridicola nella sua forzata accezione politicamente corretta), è un altro tema molto caro, soprattutto perché offre la versione originale di quanto è ormai sempre più spesso riproposto in passerella, a prezzi altissimi. YPulse, azienda americana capillare in tutto il mondo, leader negli studi su comportamenti e abitudini di consumo di Gen z e millennial, a gennaio 2023 ha chiesto a un campione di età compresa fra i tredici e i trentanove anni, in Nord America, quali fossero i venti brand a loro giudizio più cool, più in linea con le loro aspirazioni: nessuno di questi rientra fra i brand del lusso a parte Calvin Klein, in sedicesima posizione, probabilmente per una percezione più legata al jeans e all'underwear.

  

Compaiono invece piattaforme che vendono capi di seconda mano come Depop o Parimente. Richiesti di indicare quali fra dieci marchi del lusso avrebbero voluto possedere, hanno risposto in maggioranza "nessuno". Seguiva Gucci, grazie al linguaggio inclusivo, comprensibile e creativo che Alessandro Michele aveva introdotto, Louis Vuitton, Nike (considerato un marchio di lusso dalla Gen Z, mentre per i Millennials la stessa posizione è occupata da Rolex). È curioso che Apple sia presente in entrambe le classifiche e che quindi sia equiparato alla moda, come Tesla e Bmw per i Millennials. Lo stesso sondaggio è stato condotto anche in Europa occidentale e i risultati sono simili, con Gucci sempre primo a parte in Francia dove si posiziona al terzo posto dietro Louis vuitton e Dior. Ma ovviamente il dato più interessante è quel "niente" in prima posizione nel territorio americano a differenza dell'Europa: il non essere attirati da nessun marchio è un dato molto eloquente. I nativi digitali hanno in buona parte perso la fascinazione nei riguardi dell'esclusività dei brand; ma se in Europa, dove la profondità culturale è maggiore (e anche l’ipocrisia di negare l’interesse per i marchi quando poi si acquistano falsi), sopravvive la seduzione di nomi parte della sua storia, in Nord America, dove la moda non è parte del tessuto sociale, il passato viene visto come limitante, a volte da cancellare. In più il mondo social ha dato accesso a quello che prima era irraggiungibile e, nell'era del metaverso, poco importa di assistere dal vivo a una sfilata o vederla sullo schermo di un telefonino o un tablet. Tutto è rapido e l'interesse per qualunque cosa è oltre l'effimero, dalla passione per un brand ai rapporti personali. Se un tempo i rapper erano i primi a flexare (dall'inglese flex, ostentare, parola entrata nello slang di oggi) i loghi, adesso anche questa certezza traballa. Anna, all'anagrafe Anna Pepe, rapper italiana classe 2003, nel singolo "Energy" uscito il marzo scorso canta: "Ora che ho fatto i soldi manco vado da Gucci/Faccio shopping dai cinesi, spendo soltanto in sushi", come per dire che non è più il brand a decretare il successo di chi ce l'ha fatta, ma il godersi la vita. Se da un lato questo è il sintomo che la Gen Z stia crescendo, dall'altro è il riflesso di come questa generazione, che, non dimentichiamolo, ha passato i tre anni più importanti della sua formazione chiusa in casa davanti a uno schermo a causa della pandemia - sta riscrivendo le priorità che evidentemente sono sempre meno legate alla moda come prodotto, ma più concentrate sulla persona. Per quanto possa apparire superficiale, un mondo post-Covid e ancora incerto fra conflitti e cambiamenti climatici, influisce sui comportamenti di chiunque. I giovani preferiscono concentrarsi su di sé; certamente seguire le tendenze, ma non spendere troppo per un abito, una borsa o un paio di scarpe che al momento dell'acquisto hanno già annoiato.

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