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Cosa rimane della Milano Fashion Week

Dalle passerelle milanesi doveva arrivare qualcosa di diverso dalla “rilettura dei codici della maison”, e alla fine qualcosa, anzi molto, è arrivato. Da Bottega Veneta e Ferragamo, soprattutto da Giorgio Armani

Fabiana Giacomotti

Alla fine della Fashion Week milanese, collezioni inverno 2023, doveva arrivare qualcosa di diverso dalla “rilettura dei codici della maison”, e alla fine qualcosa, anzi molto, è arrivato. Bottega Veneta. Anche Ferragamo. E poi Giorgio Armani, che una stagione dopo l’altra continua a ricordare al mondo che cosa siano la grazia e il rispetto della figura umana, in un percorso che da qualche anno va facendosi ogni volta più intimo, più delicato e sofisticato, come in questo racconto di bellezza femminile che si svolge, come in un pochoir di Barbier, fra gesti trattenuti, colori sofisticati, e favolose texture di velluti nere e sete scivolate color cipria e mandarino che donano lucentezza alla pelle. Forse sarà perché stiamo montando una mostra ricca di meraviglie Anni Venti, ma ci sembrava spirasse una certa atmosfera Déco, fra i cuscini del proscenio, fra l’effetto marmoreo delle quinte del teatrino di via Borgonuovo, e al contempo un gran senso di indipendenza femminile e di rigore, in questa collezione pensata, come puntualizzava Armani a fine sfilata “per le donne e non per la stampa, scusatemi tanto”.

 

Sì, in effetti sono tante, le collezioni “à sensation”, per così dire instagrammabili, che una volta scese dal palco e scomposte si rivelano nella propria banale sequenza di gonne senza un perché e di top col fiocco. Non è questo però il caso né di Ferragamo, dove la seconda stagione di Maximilian Davis mostra in modo inequivocabile che la scelta del ceo Marco Gobbetti di ingaggiarlo come direttore creativo è stata corretta (borse, scarpe, ma soprattutto e incredibilmente capispalla, solitamente mai troppo centrati nella storia della maison fiorentina, molto contemporanei e desiderabili) e naturalmente di Bottega Veneta, una delle collezioni più attese della stagione di Milano, dove Matthieu Blazy ha chiuso la sua “trilogia di ispirazione italiana” con una parata di forme che racchiudevano, in un eclettismo incredibilmente riuscito e contemporaneo, le forme, i volti e i caratteri della moda italiana dal Cinquecento a oggi, Primavera del Botticelli inclusa. Dal rituale mattutino della pin-up, con la sua chemise bianca trasparente e i calzini da letto (dove il vestito dissimula la sua complessità materiale, mentre i calzini sono scarpe di pelle lavorate a maglia), all'industriale con l'ossessione della sartorialità e la sua camicia da notte gessata interamente realizzata però in nappa. Una polifonia di presenze e di influenze punteggiate lungo il percorso dagli antichi corridori romani in bronzo del primo secolo a.C., e la scultura futurista 'Forme uniche della continuità nello spazio' di Umberto Boccioni (1913), solitamente conservato al Museo del Novecento. Da molto tempo, per certi versi dagli anni del Futurismo e appunto, non capitava di vedere una collezione che indagasse le origini dell’eleganza e dello chic, del cambiamento e del movimento come dinamica non solo fisica vestimentaria. E al tempo stesso, al di là delle formule vuote da comunicato stampa e conferenza per addetti, non succedeva di vedere l’artigianato d’eccellenza altrettanto valorizzato, con forme storiche rivisitate e reinventate, svuotate, disossate, ritagliate e sospese.

 

E adesso, il tradizionale alfabeto delle sfilate

 

B come brache. Derivati diretti dalla loro etimologia gallica, accompagnano la linea delle gambe, come da Prada, ma più frequentemente la occultano: i pantaloni sono frequentemente scesi in vita e larghi. Il nostro concetto attuale di braca, appunto

B come borse. Vincono di dieci lunghezze Ferragamo, quasi più per la borsa piccola col il manico in plexi colorato che per quella in via di affermazione già in questi mesi, grandissima e dunque non adatta a tutte le altezze, e ancora Bottega Veneta. Il modello “sardina” sarà il più richiesto e collezionato del prossimo inverno, siatene certi

B come bustino. A vista (N21 di Alessandro Dell’Acqua, Scervino, Bottega Veneta), o anche a sostegno di robes manteau senza spalle (Act 1), indossati da uomini. Le comunità Lgbtq+ whatever grideranno al miracolo. In realtà l’uomo col busto – anche abbastanza a vista - era una cosa in voga fino a un secolo fa e, non fosse stato per l’ignobile sceneggiata dei fiori, ci saremmo accorti che lo indossava anche Blanco sul palco di Sanremo.

B come burlotto. Il rotolino di stoffa imbottita delle finiture dei farsetti cinquecenteschi scivolato sui fianchi per dare forma a abiti e gonne nella collezione di Bottega Veneta. Una festa

C come cappotto. In calo vertiginoso il piumino d’antan, che forse tornerà a vestirci dove dovrebbe, e cioè in montagna. Li hanno fatti tutti, e tutti belli. Particolarmente riusciti quelli di Ferragamo, asciuttissimi

C come chartreuse. Tinta bellissima e difficilissima, praticata finora quasi esclusivamente da Giorgio Armani, è comparsa nelle collezioni di Ermanno Scervino, Luisa Spagnoli e fra i più giovani

C come Cucinelli. Era dall’anno successivo al debutto di Alessandro Michele da Gucci (vedere alla voce), che non capitava di assistere a un simile moltiplicarsi di imitatori per un solo marchio. Poi, come diceva Coco Chanel, sarà anche vero che l’imitazione è il più efficace segno di apprezzamento, ma il numero di chi scopiazza senza vergogna i look del brand di Solomeo sperando di replicarne anche i successi economici e sociali sta diventando imbarazzante, in particolare fra chi non ha i mezzi per replicare maglioni realizzati a ricamo con settanta ore di lavoro, ma soprattutto non coglie il senso delle collezioni e accosta a caso tinte boschive, aggiungendo per maggior sicurezza la bordatura a catenelle d’argento a tutti i capi. Il giorno prima del debutto ufficiale delle sfilate milanesi, uno di questi marchi me too ha fatto sfilare in zona Garibaldi uno smoking maschile di velluto marrone corto alla caviglia, abbinato agli scarponcini da trekking. Un orrore anche senza voler evocare lo storico detto partenopeo secondo il quale solo “‘o cafone vest’e marrone” .

C come cuissard. In denim (Cavalli, Diesel, Richmond), in pelle (Scervino, Spagnoli e Gucci neri, Bottega Veneta rossi), in paillettes (Emporio Armani). D’accordo, valorizzano le signore dotate di gambe lunghe e sottili – Elodie a Sanremo in cuissard Versace era da infarto - però li vogliono e li indossano con gioia anche tutte le altre, consapevoli di come nascondano caviglie pesanti, piedi tozzi e rotule massicce (sì, usiamo espressioni antipatiche. Però, non essendo Roald Dahl ed essendo ancora in grado di difenderci, aspettiamo che veniate a dirci che non possiamo scrivere di rotule)

D come demi monde. Nota speciale per Borbonese. Citare in cartella il “demi monde” come referenza e nota di merito, non è una scelta astutissima se ci si vuole qualificare nell’universo del lusso. Molte risate in presentazione fra chi sa di letteratura e ha letto Balzac, Proust, insomma ha compiuto studi regolari, ma anche fra chi si è occupato semplicemente di cronaca e ha avuto a che fare di recente con il “mondo di mezzo”. Da cui una nota da prof: ragazzi, frequentate università vere. E poi iscrivetevi anche a caro prezzo a tutti i master specializzati che volete. Ma l’università va fatta bene. E magari anche il liceo.

E come Elkann. L’espressione very Agnelli con cui la progenie ormai adolescente di John e Lavinia Elkann assisteva all’ingresso del popolo della moda alla sfilata Ferrari a Palazzo Citterio era da sola uno spettacolo.

F come Fendi. La stampa è ancora incerta e divisa sulla collezione, i buyer no. Pare che gli ordini per le maglie e le gonne Fendi e per quella silhouette sottile si moltiplicheranno. Molto convinti i Giglio (da Palermo a nord) e i Kraler (Cortina)

F come Ferrari e Ferragamo. L’audience internazionale che segue praticamente tutte le sfilate in presenza si è trovata d’accordo nel ritenere che la parte centrale della bella collezione realizzata da Maximilian Davis per Ferragamo, cappotto goffrato nero e rosso e abitini sexy di jersey metallizzato effetto cromato-liquido inclusi, avrebbe figurato a meraviglia nella collezione Ferrari che invece, dopo le prime uscite molto centrate, eleganti e rigorose nei bomber, nelle tute di pelle e in una serie di jeans di taglio e modello fantastici, perdeva di focus per orientarsi verso una non precisata signora chic col cerchietto di cristalli e gli spolverini di tessuto tecnico lucido di certe collezioni Prada dei primi Duemila che dovremmo avere ancora nell’armadio.

F come fianchi. Nuova zona erogena da esibire, fra il bustino e la vita scesa di gonne e pantaloni. Ovviamente non si può dire, ma i fianchi tonici di sport e alimentazione sana sono più graziosi. E così l’abbiamo detto

G come Gucci. Molto apprezzata la comparsa dell’intero ufficio creativo a fine sfilata. Epperò. Come dicevano le tate di un tempo, if you have nothing to say, don’t say anything at all. Sabato De Sarno arriverà a guidare quello stesso ufficio fra pochi giorni, si sarebbe potuta saltare lo show senza perdere un’oncia di appeal. La sfilata “antologica”, definizione dello stesso ufficio stampa, vale solo se vogliamo considerarla una cesura.

J come jeans e denim. Perfino in versione velluto stampato effetto delavé, come nei tailleur pantalone di Scervino. E’ l’effetto Glenn Martens, che sta rilanciando Diesel.

L come lucido. Non si può vivere di solo rigore, e infatti ecco una messe di vestiti cortissimi e sexy, naturalmente drappeggiati, in tessuto spalmato effetto vernice, morbidissimi. Perfetti e molto simili da Ferragamo e da Balestra

N come nodi. Va molto l’abito chiuso con grossi nodi, o avvolto attorno a una striscia di tessuto o di pelle equilibrato da un nodo. In prima fila sulla tendenza MSGM e Sportmax, che ne ha fatto il tema di una sfilata montata come un film di John Ford (molto belli anche gli abiti con lo scollo ad ala, sostenuto da un’anima rigida, effetto tronco d’albero asciugato dal deserto. L’ufficio stile del brand di tendenza del gruppo Maramotti sa il fatto suo, anche se non appare e non personalizza alcunché).

P come paillettes. Pochi ormai le inseriscono a mano e a maglia come nei favolosi abiti Coveri degli Anni Ottanta, forse solo Cucinelli; però stanno per diventare un classico come l’animalier. Molti le hanno proposte anche per il giorno (Le Twins, MSGM, per esempio)

P come panier, anzi. Davvero. Minimali, rigidi, danno forma inedita agli abiti. Da Bottega Veneta, con aria incredibilmente moderna. Li vorranno tutte le alte e magre, e si immagina anche tutte le altre. Anche lavorando nella storia del costume, non avevamo mai fatto caso alle capacità modellanti e magnificanti delle imbottiture e delle gabbiette, considerandone solo l’aspetto sociale.

P come pelle. Nella battaglia contro il greenwashing, è passato finalmente il messaggio che l’ecopelle non esiste, ma soprattutto che la pelle finta non è molto ecologica. Gli ultimi dati sull’inquinamento prodotto dalla lavorazione della para-pelle derivata dalla frutta (secondo una ricerca commissionata al laboratorio Ars Tinctoria dal Consorzio Vera Pelle Conciata al Vegetale, le pelli trattate con estratti vegetali secondo il Disciplinare dello stesso consorzio raggiungono contenuti di carbonio bio based per una quota media del 95 per cento circa, mentre nei materiali alternativi dichiarati sostenibili come derivati da ananas, cactus, mela, la presenza è al 25 per cento circa di media) hanno fatto rivalutare la pelle vera che, almeno fino a quando non smetteremo di mangiare carne, continuerà ad essere un ricco e duraturo derivato da scarto alimentare. Non c’è praticamente nessuno che non abbia fatto almeno un trench, un cappotto o una tuta di pelle.

P come Pelliccia. In passerella, ormai sono ammessi solo i montoni o il breitschwanz, si immagina non ottenuto nella maniera di un tempo. Le ragazze, che non hanno subito l’esecrazione sociale guidata dalla Peta negli ultimi vent’anni, e che in genere amano la pelliccia, tendono comunque a indossare quella della nonna, senza nemmeno farla rimontare nelle sartorie specializzate perché sia molto evidente che si tratta di modelli vintage e che dunque “nessun animale è stato maltrattato” nel caso specifico almeno di recente “per la realizzazione di questo capo”. Con il riscaldamento globale del pianeta, è però raro che la pelliccia sia ormai un capo realmente utile. Anche per questo, speriamo arrivi il momento in cui si faranno i conti con l’inquinamento importante prodotto dalle pellicce sintetiche, e con la loro infinita bruttezza. Eppure, sulle passerelle e alle presentazioni milanesi se ne sono viste di ogni genere, da quelle stampate (Alabama Muse, se non altro divertenti) a quelle a imitazione del vero (Cavalli), a quelle modello Crudelia De Mon (Gucci). A chi è nato fra i Sessanta e i Settanta ricordano instancabilmente i tappetini del bagno, copriwater incluso, tutti a pelo lungo e colorati, in uso nelle case kitsch di certi amici i cui genitori tenevano a mostrarsi moderni. Anche nei casi migliori, e in quelli in cui la pr di turno ti spiega come siano stati realizzati “sostenibilmente”, non è consigliabile avvicinarsi a questi capi con un accendino acceso. La maggior parte di queste pellicce, tanto sostenibili, sfregandole crepitano di elettricità statica. L’unica alternativa davvero bella e sostenibile alla pelliccia vera è a imitazione, ma realizzata in lana: le hanno fatte Ermanno Scervino e Brunello Cucinelli (vedere alla voce). Sono morbide, leggere, non ti viene voglia di stenderle ai piedi della vasca da bagno, non rimarranno a inquinare l’atmosfera nei secoli dei secoli

P come performance. Qualcuno ci spiegherà come il team di Sunnei abbia convinto le modelle a gettarsi di schiena con fiducia fra le braccia degli spettatori a fine passerella per DECINE di volte. Bravi anche gli spettatori comunque, fra cui immaginiamo ci fossero dei professionisti dell’acchiappo al volo

P come pulizia. Il sostantivo ubiquo del momento. Più efficace se unito a “rigore” e “linearità”

S come sovrapposizioni. Organze e chiffon sovrapposte a camicie o gonne di cotone alleggeriscono collezioni altrimenti fin troppo rigorose. Di grande ispirazione i capi di Arthur Arbesser, che ha scelto anche di replicare nelle stampe e nelle applicazioni sulle camicie i dipinti del bisnonno, famoso pittore di paesaggi di fine Ottocento  

S come spalle. Da quando Daniel Roseberry ha riportato in auge le spalle ampie, un po’ scese di Elsa Schiaparelli, innestandovi un minimo di volumi Ottanta, le giacche hanno perso l’allure minimale che, Balmain escluso, hanno avuto per un decennio. Le spalle importanti sulle giacche abbastanza lunghe da poter essere indossate senza gonna (in sfilata, tutte, a partire da Tod’s, dove Walter Chiapponi ha realizzato una collezione di classica e durevole eleganza) sono, anzi, l’unico elemento di sontuosità in una stagione minimale

S come Saint Laurent. Se Cucinelli è il faro di un esercito di maglifici di ambizione, Saint Laurent è quello di chi aspira a fare moda di tendenza anche se veste di chiffon ai matrimoni le sciure di provincia. Non scriviamo nomi e cognomi per carità di patria, ma ci siamo capiti

T come tacchi. Fatti salvi quelli di Ferragamo, che riprendono modelli storici e dunque vanno considerati come una branca del cosiddetto heritage, sono perlopiù bassi e sottili, il cosiddetto kitten heel, oppure a zeppa, ma prevalentemente e sempre sottile e slanciata. Sneaker in passerella, per fortuna davvero poche

T come twist. Basta. Abbiate pietà. Cestineremo tutti i comunicati stampa che conterranno la locuzione “classico con un twist”, che in realtà significa “non avevamo il coraggio/i soldi/il creativo capace davvero e dunque abbiamo aggiunto una doppia piega alle gonne”. 

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