Foto Epa via Ansa

il foglio della moda

Il business dell'(im)perfezione

Fabiana Giacomotti

I brand della moda accelerano sulle linee di cura e bellezza, le uniche che abbiano già recuperato i fatturati pre-Covid. Un panorama contraddittorio e schizofrenico in cui convivono il marketing dell’inclusione e l’ossessione dei giovanissimi per la forma

Lo scorso 24 agosto, mentre tutti ci godevamo gli ultimi giorni di vacanza o della sua migliore imitazione, la donna più abile del sistema moda, Stella McCartney, annunciava che entro il mese di settembre, cioè in contemporanea con la sfilata estate 2023, avrebbe immesso sul mercato i primi tre prodotti di una nuova linea skincare col suo marchio. Prodotti ovviamente “clean”, dichiarava, puliti, nel consueto stile apodittico che però esprimeva un’ovvietà, visto che l’Unione europea ha vietato i test di prodotti cosmetici sugli animali nel 2013, la Cina lo scorso anno e che no, a dispetto dei post di un gruppo nutrito di attivisti, nessuno usa più nemmeno nei profumi sostanze che non siano di sintesi: per questioni allergeniche, in occidente tutto è ormai prodotto chimico; magari riproduce i principi del prodotto naturale, ma non lo è.

 

Le creme di Stella McCartney saranno vendute in confezioni ricaricabili, come fanno ormai anche i supermercati con i detersivi, a un prezzo però di lusso, cioè fra i 45 e i 150 euro. Non è chiaro dove la linea verrà realizzata, ma è possibile che lo sia in Francia (il brand fa parte dell’universo Lvmh, notoriamente) oppure in Italia, tuttora il primo centro della produzione mondiale terzista di make-up e in buona parte di trattamenti, seguita da Corea del Sud, Germania e Francia. Per dirla in cifre, a stime 2022 il fatturato del settore dovrebbe toccare i 12,1 miliardi di euro, di cui quasi la metà, cioè 5,5 miliardi, e 1,6 miliardi attribuibili al solo settore del trucco. Come segnalano da Cosmetica Italia, il 65 per cento delle donne europee si trucca con prodotti realizzati fra Crema e Bergamo, spesso presso un solo produttore-laboratorio che poi differenzia gli ingredienti a seconda del marchio: nella storica fabbrica delle macchine da scrivere Olivetti progettata da Marco Zanuso ristrutturata, il presidente dell’associazione confindustriale, Renato Ancorotti, produce per esempio tutto il mascara di qualità esistente sul mercato. Citate un marchio a caso, e nella quasi totalità uscirà da lì. Fra pochi giorni, Cosmetica Italia presenterà la nuova ricerca sui cosmetici naturali; possiamo anticiparvi che ne emergerà un tasso di crescita quasi doppio per i prodotti “naturali” o percepiti come tali rispetto a quelli ancora vissuti come “industriali”.

 

Dunque, Stella McCartney segue una tendenza fortemente sentita e condivisa dalla maggior parte dei consumatori di linee di bellezza, che vanno crescendo ben oltre quelli della moda. Questo accade per molte ragioni la prima delle quali, intuibile, è il costo di accesso, di poco superiore a quello dei profumi, storicamente il prodotto accessibile sia per i clienti sia per i piccoli brand che ne affidano la produzione a colossi come l’Oréal o Coty, però più premiante, più ”personale”, in un momento in cui l’attenzione verso il sé, un sé perfetto e premiato da una cascata di like e guidato dai social media, si è fatto spasmodico soprattutto fra i giovanissimi a dispetto della sua tendenza contraria o, forse, complementare, e cioè il cosiddetto body positive. La vulgata dice che dovremmo “amarci per come siamo”, le fidanzate lagnose di rocker di grido ci mostrano i loro peli sulle gambe quasi fossero premi al valore, il Calendario Pirelli 2023 si preoccupa di inserire con equilibrio politicamente correttissimo tutte le fisicità e tutte le etnie, eppure i nostri smartphone propongono di continuo nuove App di filtri estetici, mentre il ricorso alla chirurgia estetica in Italia è cresciuto del 130 per cento nel 2021, chiaro indicatore che chiunque ne avesse le possibilità è corso a levarsi i chili di troppo accumulati durante i lockdown. Lo dimostra peraltro anche l’elenco degli interventi più richiesti: liposuzione alle gambe e addominale (+31 per cento e 26 per cento), mastoplastica riduttiva (+67 per cento), e ancora addominoplastica, che ricostruisce, a prezzo di dolori terrificanti, le fasce muscolari rilassate che ormai sono un cruccio anche per molte ragazze appena maggiorenni

   

Su Facebook gira da mesi la foto di una spiaggia italiana del 1982, quella della mia adolescenza, e una di oggi: sembra che qualcuno abbia usato un deformatore di immagine, eppure non è che allora ci tenessimo a stecchetto. Però, sebbene non intenda rifarmi all’aberrante definizione che ha dato Giorgia Meloni dei disturbi alimentari giovanili bollandoli come “devianze”, perché sono malattie, non c’è dubbio che noi facessimo più sport, non avessimo le playstation a tenerci incollati ai divani, non iniziassimo a sfondarci di alcolici negli anni in cui i nostri tessuti e le nostre cellule mandano a memoria informazioni determinanti per il nostro futuro metabolico (chi beveva era un povero sfigato), mentre la deregulation non aveva popolato le città di paninoteche e pizzerie aperte a ogni ora del giorno. Accanto all’aumento dell’obesità in tutti i paesi occidentali, Italia in testa nella fascia infantile europea, una tendenza che sta portando a una progressiva revisione degli standard di bellezza, viaggia in parallelo il nimby della body positivity, definiamolo magari not-in-my-closet, non nel mio guardaroba: tutti, ufficialmente, devono essere contenti della propria individualità, qualunque essa sia, ma nella realtà la pressione per la bellezza e la forma armoniosa, le linee sottili del corpo e la leggiadria del viso, non è mai stata schiacciante come adesso, anche in paesi e culture lontane dalle nostre come racconta bene Giulia Pompili.

 

In questo sottile crinale fra comunicazione e marketing a fini social e mutamenti del mercato, il responsabile dell’ufficio studi di Cosmetica Italia, Gian Andrea Positano, fa sapere che la fascia di accesso a cosmetica e cure per il corpo si è abbassata ai 16-17 anni. Ambosessi, perché il progressivo recupero delle cure Ancien Régime (trucco, manicure, depilazione, idratazione) riguarda anche i ragazzi. Se a questo quadro aggiungete il progressivo riequilibrio, cioè il taglio netto nelle spese non solo voluttuarie, a cui sta portando l’inflazione, è evidente che trucco e cura della persona, “l’unica cosa a cui non si possa rinunciare”, come osserva, stiano rapidamente trasformandosi nel settore sul quale una lunga serie di marchi di moda vanno puntando per aumentare la loro top e bottom line, accanto a nomi di lunga militanza come Chanel, Dior, Saint Laurent e Giorgio Armani, da sempre il preferito dai professionisti del cinema e della televisione nel trucco (fondotinta, principalmente). Valentino, entrato nel comparto lo scorso anno attraverso un accordo con L’Oréal Luxe, insieme con Off-White e Dries Van Noten è il miglior esempio di questo difficile, eppure necessarissimo equilibrio fra business, ricerca estetica, corrispondenza strategica e di immagine con l’etica e il posizionamento di brand. “Quando abbiamo lanciato le fragranze e il make up di Valentino, abbiamo lavorato a fianco del direttore creativo Pierpaolo Piccioli per tradurre (nelle linee) i valori di inclusione che sono propri al suo messaggio, rispettando dunque l’unicità di ciascuno ma proponendo al tempo stesso un messaggio univoco attorno ai codici della maison”, dice il presidente della divisione, Garance Delaye. Questo parallelismo fra moda e linee di bellezza si è tradotto in prodotti differenziati e personalizzabili, come in realtà accade sempre più spesso anche per altri brand a partire da quelli, rivoluzionari, che sviluppò Rihanna meno di dieci anni fa per il gruppo Lvmh (seguì la linea di moda ma fu un clamoroso insuccesso) e una campagna scattata dallo stesso Piccioli e declinata su “sedici personalità diverse”, a prescindere da genere, età, etnia. I dati di fatturato sono secretati, ma il progressivo aumento della presenza del beauty Valentino nella profumeria selettiva, che affiancano le vendite nelle boutique monomarca e l’e-commerce, sono un indicatore di crescita abbastanza preciso. Così come è evidente che la bellezza sia un business interessante anche per chi, fino a oggi, l’aveva solo raccontata, che è il caso di influencer pacificati e pacificanti come Clio Zammatteo, al secolo Clio Make Up, 10,5 milioni di fatturato nel 2021, in crescita del 30 per cento nel primo quadrimestre di quest’anno, con prodotti di fascia medio-bassa, una partnership con OVS in corso e una serie di spazi monomarca in via di definizione. Sul web insegna cose semplici in modo semplice e con un abbigliamento semplicissimo, nulla a che vedere con star da sfilata come Pat McGrath. In epoca inclusiva piace anche per questo, per il suo essere come tutte, e infatti su Youtube ha milioni di follower e commenti adoranti del genere, “Bella Clio, fa sempre piacere sentire i racconti delle tue sensazioni e stati d’animo”. Lei si posta volentieri anche struccata (confronto sempre a pagina 3 per capire come le rilassatezze estetiche altrove costino la carriera). Cercando fra i tanti documenti si scopre però che anche lei ha una voce particolarmente cliccata che la riguarda: “Clio Zammatteo dimagrita”. E’ inutile: anche il body positive ha i suoi diktat e le sue infinite delusioni.

 

Ossessione beauty. Film sull’arte del trucco&parrucco non mancano: “Beauty Shop” con Queen Latifah (2005, diretto da Bille Woodruff), è uno dei migliori. Ci sono anche spot estemporanei, come una storica campagna di Diesel, la prima della serie “for successful living”, che vinse il Festival della Pubblicità di Cannes nei primi Anni Novanta. Il primo lungometraggio del regista inglese Thomas Hardiman, giovanissimo, caruccio, all’attivo pochi lavori fra i quali un corto per il Bar Luce della Fondazione Prada, presentato il mese scorso al 75esimo Festival di Locarno, si intitola “Medusa Deluxe” e, se non l’opera matura di un grande professionista, è comunque un’incursione intelligente, perfidina, divertentissima, nel mondo dell’acconciatura di alto livello (firma le acconciature pazzesche, qualcuna ispirata alle stampe Ancien Régime, modello “Belle Poule”, Eugene Souleiman, hair artist di Vivienne Westwood, John Galliano e direttore creativo cura&styling di Wella Professional). Giovane, ma piuttosto sicuro di sé, Hardiman gira in piano sequenza un “murder mystery movie” in cui l’ossessione per la bellezza, la cura, l’estetica, rischia ad ogni momento di trasformarsi in spinta omicida. In suo soccorso, oltre alla star mondiale del capello, è corso anche Koreless con una colonna sonora che molto aiuta ad approfondire i caratteri laddove la sceneggiatura rischia di rimanere in superficie per troppo “wit”, troppa arguzia. In Italia uscirà l’anno prossimo. Il regista, incontrato al festival, racconta di essere “un grande fan dell’arte del capello, l’unica corona che non ci togliamo mai”. Dicono che i distributori si strappino il film di mano, come il cuoio capelluto del morto numero uno.

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