Abbecedario della Milano Fashion Week

La settimana della moda milanese si è chiusa meglio del previsto. I numeri della ripartenza e un certo spirito critico

Fabiana Giacomotti

Milano Fashion Week 2021, com'è andata

 

È andata. La settimana della moda milanese per la prossima estate si è chiusa infinitamente meglio del previsto e non solo perché quasi tutte le sfilate sono tornate in presenza, le fermate dei taxi erano sempre vuote e nei ristoranti non si trovava un solo tavolo libero, ma perché fra le sedute distanziatissime si è fatto largo anche, per la prima volta dopo decenni, un certo spirito critico. Sebbene la competizione fra brand sembri ancora più acerrima rispetto all’era-pre Covid, e l’ansia di recuperare fatturato quasi rabbiosa, fra i commenti e le analisi della stampa specializzata e degli spettatori via social si è letta una presa di posizione durissima nei confronti, per esempio, di certi casting troppo uniformi per taglia ed età. In un anno e mezzo, ci siamo abituati all’immagine dell’umanità per quella che è e non per quella che molti vorrebbero fosse, e dunque a vedere sfilare modelle robuste o ultracinquantenni. Poi, certo, dovremo metterci d’accordo sulle ragioni per le quali non tolleriamo più di osservare la camminata di una ragazza sottopeso e invece applaudiamo quella di una molto sovrappeso, che sarebbero entrambi esempi di stati di salute da non promuovere, ma in via generale diciamo che le passerelle non normalizzate, cioè non simili a quel che vediamo ogni giorno per strada, iniziano a stonare agli occhi di tutti. C’è anche molta meno tolleranza per la mancanza di solidarietà e di collaborazione fra brand, per la smania dell’esclusiva per modelle e location, per gli sgambetti e per lo sfoggio arrogante di potenza, che pure non sono mancati, ma che sono stati registrati fino all’ultimo.

  

Stanno uscendo i primi dati sulle presenze in città; solo per il salone White si parla di 13mila presenze. Affollati anche gli spazi di Lineapelle in fiera e, nella settimana precedente, dei tre saloni della calzatura, pelletteria e dell’haut-à-porter, cioè Micam, Mipel e TheOneMilano. Il progetto #restarttogether di “ripartenza collettiva” ha funzionato, portando quasi 22mila 300 visitatori in tre giorni a 735 espositori, così come sono piaciute tutte le altre iniziative di collaborazione create sull’onda dell’affetto più che del business (molto piacevole, per esempio, il progetto Giulia Maramotti, erede Max Mara, e Margherita Maccapani Missoni, uscita dal business di famiglia dopo la revisione voluta dal nuovo ceo Livio Proli).

 

Poi, potremo continuare a dirci come riuscirà la moda a giustificare il proprio eccesso produttivo continuando a perseguire al contempo obiettivi di sostenibilità, ma questo dilemma non riguarda solo lei, bensì tutta l’industria mondiale. La differenza rispetto ad altri segmenti, è che la moda il problema prova a porselo davvero e, al di là delle fin troppo riconoscibili iniziative di puro marketing, sta iniziando ad approcciare una strategia di ri-significazione del valore di prodotto che per la prima volta contempla anche il vintage, vedi il progetto Vault di Gucci. Dovessero, nei prossimi anni, calare i consumi e gli acquisti di nuovo, la moda avrà già occupato anche quelli del seconda mano o, come usa dire, del pre-loved. Già amato.

   

E ora, ecco, l’ormai classico dizionario riassuntivo delle ultime giornate, argomentato.

    

A come Armani, anzi come Giorgio Armani. Che cosa succede quando la folla assiepata fuori dalla tua sfilata non aspetta i tuoi ospiti famosi ma te? E cerca di toccarti, stringerti la mano, scattarsi un selfie con te? Che cosa si prova quando nessuno metterà mai più in discussione la tua moda, e non perché sia più o meno bella, ma perché qualunque cosa tu faccia adesso è perfetta e senza discussione, no debate come la gender theory? Che cosa significa liberarsi per sempre dagli affanni della competizione e vivere con grazia questo nuovo status? Insomma, che cosa significa essere, adesso, Giorgio Armani? Ce lo domandavamo l’altra sera, in un gruppetto, fermi all’angolo di via Borgonuovo, mentre osservavamo la folla assiepata oltre le transenne (senza mascherina ahinoi), che aspettava la fine della sfilata, scoprendo che l’atteso era lui, e che la gente era lì per applaudirlo mentre percorreva le poche decine di metri dal teatrino a casa. Quasi nessuno era entrato nel teatrino di via Borgonuovo da oltre vent’anni, cioè da quando venne aperto il grande spazio di Tadao Ando in via Bergognone. Ritrovarlo identico, perfino con lo stesso odore un po’ acquatico mai dimenticato (da un lato confina con l’orto botanico di Brera, a poche decine di metri continuano a scorrere, sotterranei, i Navigli: tutti dimenticano che Milano è una città di canali) è stato molto emozionante, almeno quanto la collezione, la più incantevole degli ultimi anni, ispirata al mondo marino, sotterraneo, acquatico e lunare, insomma all’essenza primigenia del femminino, e alla seduzione del viaggio, anche immaginario. Era difficile credere che qualcuno sarebbe riuscito a riprodurre in tessuto l’effetto della spuma del mare da cui nasce la Venere della mitologia e il colore indefinibile della risacca. A lui è riuscito, con certi tulle di seta e certe organze che fluttuavano impalpabili.

 

A come Afghanistan. Non pervenuto. L’inclusione, la “diversity” detto in inglese perché suona più autentico, e la difesa degli oppressi di cui si riempiono la bocca tutti i marchi-con-presunta-coscienza non sembra riguardare le donne afghane, nonostante in questi giorni, a migliaia, fra Herat e Kabul abbiano protestato sui social contro la nuova imposizione del burqa da parte dei talebani, fotografandosi in abiti tradizionali, splendidi e coloratissimi (potete mettere un like anche voi: #donottouchmyclothes e #afghanistanculture). Vogliamo dire la verità, e cioè che un paese ricco solo di papaveri da oppio non rientra negli interessi della moda e dei gruppi di interesse che la sostengono? E vogliamo dire che gli Stati Uniti della Cancel Culture mirano a cancellare il ricordo recente e bruciante del ritiro in rotta delle truppe dall’Afghanistan non parlandone mai? Quando un’attivista pakistana come Bina Shah scrive che vorrebbe sapere dalla paladina del woke Judith Butler come si applichi la sua teoria alle donne afghane picchiate per strada dai taliban, osservando che la sua “accademia non si adatta alla vita delle donne del sud del mondo” e che “gli attivisti per i diritti trans si stanno comportando come nuovi colonizzatori occidentali e imperialisti, imponendoci le loro idee di genere e sessualità nello stesso modo in cui il loro impero ci è stato imposto per buona parte del XX secolo”, sta mettendo l’occidente presuntamente evoluto di fronte alle sue nuove responsabilità. L’occidente sta rispondendo con la solita ipocrisia, voltando le spalle e lo sguardo. 

 

C come Chiara Boni. Grande festa riorganizzata al riparo dalla pioggia ai Bagni Misteriosi, con affettuosa presenza della Milano che conta e sei ballerini affittati per far ballare le signore, per i cinquant’anni di attività di Chiara Boni. Negli ultimi dieci, la biondissima signora, sempre bella, ha ottenuto un grandissimo successo internazionale, a dimostrazione che bisogna crederci sempre e anche ricordare sempre a tutti quello che si è fatto. Per cui, alle solite sbadiglianti domande sul suo impegno per la sustainability-and -diversity-and-inclusion ha ricordato di aver sfilato con la comunità trans di Torino ancora negli anni del Gft, di aver portato in passerella ben vestite le amiche più formose vent’anni fa e anche di conoscere ogni singolo metro del filo di cui sono fatti i suoi abiti elasticizzati, che regalano una taglia in meno con gran gioia di tutte alla faccia del “devi amarti come sei”.

 

C come corpo. In totale riappropriazione. Anche troppo, talvolta. Ci eravamo ormai abituati ai mezzibusti cartonati dello smart working, vedere tutte quelle gambe nude e quelle schiene scoperte faceva impressione

  

E/I come Elisabetta Franchi e Isabella Errani. Quest’anno, il premio Chi è Chi della Moda, fondato dall’editrice Cristiana Schieppati e giunto alla XXI edizione, molto ambito, è stato dedicato all’empowerment femminile, e ha visto premiate anche l’imprenditrice Elisabetta Franchi e la comunicatrice Isabella Errani. Migliaia di fan in delirio sui social per la prima, star di Instagram dove indossa anche i propri abiti, molto spesso con più allure delle influencer. Per Isabella, una tigre per i propri clienti, molto schiva nella vita, applaudiamo noi.

 

F come Fendace. Qualche giorno fa avevamo scritto che un mercato già saturo di moda non avrebbe avuto bisogno di una nuova collaborazione, come quella siglata fra Fendi e Versace nell’ovvio tentativo di bissare lo scambio infragruppo fra Gucci e Balenciaga. Lo ribadiamo. Teoricamente, non ce ne era bisogno. Detto questo, in pratica, accidenti che bomba. Lo swap creativo fra Kim Jones e Donatella Versace ha prodotto una doppia collezione facile e coloratissima, divertente da morire, che ha recuperato tutte le vecchie stampa degli Anni Novanta della Medusa e il primo monogram delle sorelle Fendi in epoca pre-LVMH, facilitando dunque la vita ai cacciatori di vintage, che nel caso di Versace sono numerosissimi. Adesso le vecchie volute barocche oro su fondo bianco sono nuovamente disponibili, e resi anche moderni dall’intervento di Kim Jones, che in effetti è proprio il mago del business di cui continuano a parlare gli amministratori delegati delle altre maison, invidiosissimi. La collezione, portata in scena domenica sera nel giardino di Palazzo Versace con il meglio delle vecchie e nuove star della moda, da Shalom Harlow a Naomi Campbell che nella sua nuova struttura di cinquantenne ha acquisito una fantastica dignità matronale, andrà sold out in poche settimane. Donatella Versace dice che si è trattato innanzitutto di un gran divertimento e si vede. Non ne avevamo bisogno, d’accordo. Epperò forse sì.

 

F come Ferragamo. Dicono voci interne all’azienda che gli ultimi mesi siano stati particolarmente travagliati e che vi siano stati numerosi ingaggi a tempo di creativi (cioè arrivati e usciti nel giro di una settimana) in attesa di trovare una soluzione definitiva, in cui forse vorrà dire la sua anche il nuovo amministratore delegato Marco Gobbetti, in arrivo presumibilmente a fine anno. La collezione portata in scena di Guillaume Meilland, che fino a qualche mese fa affiancava Paul Andrew come direttore creativo della linea uomo, aggiungeva a una certa aria di miracolo qualche nota interessante, come la reinterpretazione della stampa tigrata presente nell’archivio della maison dagli Anni Settanta. Ma, soprattutto, l’aria understated del tutto, cauta e timorosa, evidenziava per contrasto e finalmente il vero punto forte della casa, che sono le calzature e le borse. Bellissimi i sabot di pelle, i primi interessanti ed eleganti da tempo, e anche le mules a rete.

 

J come Jeans (o anche denim). Nessuno che non abbia infilato un capo in denim o in cambray tinto indaco nella propria collezione, anche in versione patchwork come negli Anni Settanta: da John Richmond a Versace a Luisa Spagnoli, il denim è il tessuto più praticato. Immaginiamo sia sostenibile: gli anni delle grandi polemiche su lavaggi e tinture sono comunque finiti. I bersagli delle polemiche, al momento, sono altri (vedere alla voce pelle).

 

M come mascherine. Piuttosto impressionanti i bocconiani che si accalcavano a centinaia alle finestre sopra il salone accademico in cui sfila da anni pre-Covid Max Mara per vedere la collezione, le modelle e gli ospiti. Tutti atterriti dalla mancanza assoluta di mascherine e di rispetto delle regole della futura classe dirigente (idem anche i colleghi inglesi, però). 

 

P come pelle (1). L’unione delle concerie italiane e l’Icec che ne certifica la qualità avevano appena raggiunto un accordo con il WWF mondiale per valorizzare le attività e la garanzia di sostenibilità dei propri membri e rieccoci con la storia che la pelle animale non è sostenibile e dunque avanti con alternative tipo derivati di funghi e/o plastiche. Devono avere davvero molta pazienza, le associazioni dei conciatori mondiali, per subire a un ritmo ormai quasi settimanale attacchi da designer o grandi gruppi che, nel tentativo di recuperare posizioni di mercato, dicono qualcosa di politicamente corretto cioè di aver deciso di abbandonare la pelle vera, che è produzione di riciclo e riuso degli scarti dell’industria alimentare, in favore di alternative più o meno vegane, che nella stragrande maggioranza dei casi sono invece derivati della plastica o necessitano di processi di lavorazione ad alto uso di combustibili e colle. L’ultimo in ordine di tempo a tentare l’operazione greenwashing è stato Volvo. E’ seguita una dichiarazione al vetriolo da parte dell’associazione americana dei conciatori sul tema delle emissioni. 

 

P come pelle (2). Al di là dell’eccentrica operazione di co-produzione creativa del Consorzio Cuoio di Toscana con il trio Rossella Jardini, Nick Cerioni e Marvely (lo storico braccio destro di Franco Moschino, lo stylist di Achille Lauro e un cantante-dj sono davvero un trio inedito, gli accessori creati interessanti), non si è mai vista così tanta pelle in passerella. Pazzeschi gli abiti corti in pelle traforata effetto merletto da Ermanno Scervino, bellissimi i sette ottavi in cuoio di Prada e i trench di Missoni, ma anche le gonne frangiate di Luisa Spagnoli con la sua collezione New Mexico dreaming. 

 

R come Renzo Rosso. Sta diventando sempre più “politico”, per cui invia messaggi istituzionali dove afferma che “la Milano Fashion Week sta diventando davvero un punto di riferimento fondamentale nel settore della moda” e che la città “è sulla strada giusta per diventare la capitale europea della moda e sta facendo molto bene”. Dice anche che “i prossimi mesi saranno certamente positivi per il settore” ed evoca “una ripresa per tutta la filiera”. Cita anche un’altra assoluta verità, e cioè che il suo gruppo, OTB-Only the Brave, è stato l’unico polo del lusso italiano presente a Milano con tre sfilate (Jil Sander, MM6 e Marni), oltre a prevedere una crescita organica del 20 per cento anno su anno. Tutte cose positive, che rallegrano per lui e il suo team e fanno ben sperare per il Paese. La forza di network che Rosso giustamente evoca è fatta però anche di piccole cose, di cui la collaborazione fra brand fa parte (sì, ci riferiamo all’effetto domino di ritardi e confusione seguito alla decisione di imporre l’esclusiva sulla location della sfilata di Jil Sander, che ha costretto Missoni a cercarsi una soluzione – lontanissimo – sotto data). 

  

S come spettacolo. Anche questo conta e fa parte del messaggio. Hands down, i migliori sono stati Marni e MSGM, che ha allestito un amoroso picnic là dove c’era l’erba e adesso c’è ancora e anche di migliore qualità, e cioè alla Biblioteca degli Alberi di via de Castilia, all’ombra del Bosco Verticale. In mezzo a quel prato, ottenuto dal Comune grazie al bel progetto, spiccavano margherite ricamate sui top con scolli a cuore e maniche a sbuffo, pantaloni cargo nei colori dei ghiaccioli, stampe microfrutta e decori micro beads a ciliegie, icone degli Anni Ottanta. Ha entusiasmato gli editor più giovani Marni, soprattutto grazie alla Pavane di Gabriel Fauré interpretata dal coro del Comunale di Bologna. Gli show di Marni sono sempre talmente riusciti che qualcuno si domanda se il direttore creativo Francesco Risso non potrebbe farne un secondo, vero, mestiere. Poi qualcuno avrebbe potuto osservare che Fauré dedicò la sua pavane alla donna più snob dell’epoca, Elisabeth Greffulhe, modello della duchessa di Guermantes di Marcel Proust, che mai avrebbe tollerato l’esplosione di diversità-diversity vista in passerella, ma i tempi cambiano e nessuno legge più la Recherche, no? A molti non è invece ancora chiaro se il grandioso programma double bill ideato da Moncler per presentare la sua collezione Mondogenius (diretta da Milano e Shanghai in contemporanea, modello Prada ma con Alicia Keys e Victoria Song collegate a scambiare opinioni e idee ben sceneggiate e undici designer coinvolti) sia stato uno sfoggio di potenza economica o un coraggioso tentativo di superare la logica delle sfilate. Di sicuro, tutti gli ospiti degli studi di viale Mecenate affittati per l’occasione erano debitamente impressionati, in particolare dal video della band INTO1, INTO1-Santa, INTO1-Mika e INTO1-Zhou Keyu, che ha aperto lo spettacolo con uno spettacolo di paracadutismo sopra tre gallerie del vento, da cui tutti hanno potuto apprezzare le prestazioni della linea Moncler Grenoble. Chiederemo un re-see delle collezioni (in gergo, la visita alla showroom), perché ci piace moltissimo il brand coreano Gentle Monster e la loro performance video, pur spettacolare, impediva di valutare i capi. Ma dopotutto, quasi nessuno compra più moda per il prodotto in sé  e, come osserva Remo Ruffini, “Oggi non basta parlare di prodotto, bisogna saper creare delle community e dare forma ad una cultura condivisa. Il mondo sta cambiando, le persone desiderano cose diverse da prima e si aspettano e chiedono di più ai brand. Dobbiamo trovare nuovi modi di coinvolgere, comunicare e dar voce a nuovi messaggi”.

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