Il Foglio della moda

Sicuri che il polo del lusso non l'abbiamo già?

Fabiana Giacomotti

Chiacchierata lunga tre mesi con Gildo Zegna, ceo dell’azienda di famiglia, che ha costruito il primo gruppo del tessile italiano, si quota a New York e ha pensieri al tempo stesso antichi e moderni sul valore della filiera

Premessa. Questa intervista prosegue a instalment, cioè a puntate, anzi a spizzichi e bocconi, dal 18 di giugno, cioè dalla presentazione della collezione estate 2022 di Zegna, disegnata da Alessandro Sartori e ricca di tali novità dal punto di vista tessile-sartoriale che alla fine abbiamo chiesto uno stage in azienda per cercare di capire meglio la natura di quei filati, spesso rigenerati cioè di riciclo, e perché le vecchie categorie della trama e ordito vengono azzerate quando nascono nuovi tessuti (il “Bielmonte”, dalla zona della Oasi Zegna, è un misto di lana italiana, seta e lino dall’aspetto del denim), nuove lavorazioni e tinture quadruple, ed è evidente che tu che dovresti raccontarle sia rimasta indietro.

 

In quella caldissima giornata di inizio estate, Gildo Zegna, amministratore delegato dell’azienda di famiglia fondata nel 1910 ormai giunta alla quarta generazione (suo figlio Edoardo è già in azienda come responsabile marketing, digital e ESG, e la quinta sta crescendo) aveva da poco acquistato la Tessitura Ubertino di Pratrivero, in provincia di Biella, nella neonata città-microdistretto di Valdilana (la denominazione è del 2019, gli abitanti non hanno ancora un nome, “valdilanesi’ non piace ovviamente a nessuno). L’acquisizione andava ad aggiungersi a quelle, più o meno recenti, di Bonotto, in Veneto, del jersey carpigiano di Dondi e della Tessitura di Novara, e iniziava a configurare il disegno strategico di un polo del tessile che ci sembrava l’alternativa più interessante, oltreché unica e irripetibile, del famoso polo del lusso fatto di brand per il cliente finale che tutti evocano continuamente in Italia con toni lamentosi, nonostante l’evidenza di tre fallimenti miliardari e una messe di cessioni negli ultimi vent’anni dovrebbero averci suggerito che il modello Lvmh non fa per noi. La Tessitura Ubertino, nota a tutta la sartoria femminile e maschile d’eccellenza per i tweed e le lavorazioni jacquard, andava a aggiungersi a un altro gioiello della manifattura piemontese non legata direttamente al settore ma cara ai nostri cuori, che è il cappellificio Cervo dalla struttura ottocentesca mozzafiato a picco sul fiume omonimo, per molti anni produttore delle creazioni di Chanel e di Hermès, oltre che distributore di uno storico marchio proprio, Barbisio. Il cappellificio, finito non si sa bene perché nelle mani di Maurizio Romiti, rischiava qualche anno fa la chiusura. Intervenne Zegna con un piccolo pool di imprenditori locali, e a giugno ci diceva che dovremmo tornare assolutamente in visita perché è stato interamente ristrutturato e che no, le cappellaie non lavorano più a mani nude nell’acqua calda e senza mascherina di protezione contro tutto quel pelo di coniglio che vola nell’aria mentre si produce il feltro, una roba dickensiana che ci aveva stravolte. Ci confermò il disegno del polo del tessile di lusso, dell’importanza di “salvaguardare la filiera italiana” e disse che avrebbe “continuato nel processo di acquisizioni, ovunque se ne fosse presentata l’occasione“, perché controllare la produzione di eccellenza significa controllare il mercato.

 

Anzi, meglio, indirizzarlo. Eravamo d’accordo, ci parve una cosa fantastica, questa capacità di dettare nuove regole a un mercato che sembra fossilizzato sul brand “da vetrina”. Parlammo ancora un po’ dei 6mila trecento acri di allevamento di pecore merino e bovini “lasciati liberi di pascolare” acquistati nel 2014 nel New England australiano, operazione che ha reso Zegna uno dei pochissimi gruppi della moda a filiera completa (geniale allitterazione in inglese “from farm to frock”, dalla fattoria all’abito), accennò agli ottimi risultati dell’acquisizione della linea di Thom Browne (lo stilista, compagno del curatore del Fashion Institute del Met Andrew Bolton, ha un pubblico adorante fra i trentenni). Passammo ai meravigliosi rododendri dell’Oasi, all’amore per il Monte Rosa, al recupero di fatturato e alla decisione di Zegna di comparare gli ultimi bilanci per così dire su base triennale, saltando cioè il 2020, annus horribilis: il 2021, disse, avrebbe probabilmente registrato un segno negativo rispetto al 2019 dei record (circa 1 miliardo e 120 milioni di fatturato), ma il 2022 avrebbe riportato il gruppo all’utile. Meno di dieci giorni dopo, Zegna e Patrizio Bertelli, patron di Prada, annunciavano l’acquisizione della maggioranza della Filati Biagioli Modesto S.p.A., secolare azienda pistoiese di filati nobili: 40 per cento ciascuno, 15 per cento alla famiglia, 5 per cento restante di un manager biellese di fiducia, Renato Cotto. Seguiva fine tuning dell’intervista, con affettuoso riferimento a Bertelli. 

Ancora tre settimane, e il racconto del polo del tessile prendeva una svolta forse non inattesa, ma di certo fondamentale, con l’annuncio della quotazione di Zegna a New York grazie alla fusione con Investindustrial Acquisition Corp, la spac varata da Andrea Bonomi a fine 2020 e presieduta da Sergio Ermotti per favorire il rafforzamento delle imprese italiane negli Stati Uniti che, Cina o meno, per molti continua a essere il primo mercato di esportazione. Seguiva ulteriore fine tuning dell’intervista iniziata a giugno, in cui Zegna diceva che la scelta del Nyse, dove verranno quotati a novembre, era un po’ obbligatoria perché già sede degli scambi di Investindustrial e perché lì si trovano i grandi investitori del lusso. “Esportiamo già il 90 per cento della produzione, la sede e ovviamente anche le fabbriche (che bello, un imprenditore che usa ancora il termine, ndr) resteranno italiane”. Ne andrebbe ovviamente di tutta la strategia del polo del tessile, non sarebbe nemmeno una precisazione de fare, ma insomma, meglio rasserenare gli animi delle migliaia di dipendenti. A fine agosto, a novantasette anni, è scomparso il padre di Gildo, Angelo, ultimo rappresentante della seconda generazione di questa famiglia solida come il Monte Rosa su cui guardano le finestre della fabbrica ma che in parte, Gildo compreso, vive da molti anni a Lugano. Stavolta, silenzio e riserbo totale. Con una preghiera degli assistenti: “Se puoi, non scrivere niente”.

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