Dizionario collettivo, affettuoso e spietato della moda inverno 22

Si chiude la settimana della moda milanese. Molta voglia di eleganza borghese, nuova e rilassata

Fabiana Giacomotti

Sette giorni e quattro tamponi molecolari dopo (qualche sfilata in presenza c’è stata, ma senza la certezza di negatività si veniva respinti), eccoci a raccontare una settimana di moda milanese con qualche punta d’eccezione e molta voglia di eleganza borghese. I più intuitivi hanno interpretato la generale voglia di una eleganza nuova e rilassata sfrondando molto sui decori e concentrandosi su tagli (molti tagli, molti buchi e smagliature nei maglioni) e tessuti: tweed, mohair, cashmere, ma anche gran trionfo di poliammidi riciclati. Sontuosi cashmere da Brunello Cucinelli nella collezione più riuscita di questi ultimi anni (tutti vogliono i tailleur pantalone in filato elasticizzato ma dall’allure morbida), sontuosissimi velluti neri da Giorgio Armani, che apprezziamo di più anno dopo anno. Con l’età, siamo sempre più consapevoli della sottigliezza di certe sue soluzioni per far cadere bene le giacche e sostenere il busto negli (apparentemente) delicatissimi abiti da sera. Come dice Miuccia Prada, si sente nell’aria una gran voglia di classico; e con questo termine, specifica, intende “che abbia superato l’esame della storia”. Qualcosa di “Intrinsecamente necessario o intelligente, di significativo e rilevante per le persone”. Gli è che, dopo un anno trascorso seduti alla scrivania nella migliore delle tute da casa possibili (in gergo loungewear), la gente ha voglia di cambiarsi, senza però rinunciare al senso di comodità acquisito in questo lasso di tempo, peraltro niente affatto terminato. Dunque, per dirla in sintesi, nessuno vuole più spendere un euro se non per capi di qualità, possibilmente durevoli e riciclabili e/o rivendibili (mentre finiamo di scrivere, una nota ci informa che la piattaforma Vestiaire Collective ha lanciato un nuovo round di finanziamento per 178 milioni di euro, sostenuto da Kering e Tiger Global management. E ora, il lessico della moda che verrà, anche lui nella forma ormai classica per il Foglio

 

A come Andrea Guerra. Nessuno ha riflettuto a sufficienza sul vero significato dell’annuncio con cui, lo scorso dicembre, il gruppo LVMH annunciava che il manager, ex ad di Luxottica, ex Eataly, ex “leopolde” di Matteo Renzi e sempre in predicato di diventare ministro della Repubblica Italiana, avrebbe affiancato la supervisione dei marchi Fendi e Loro Piana alla responsabilità della divisione hospitality del colosso del lusso. Non, badate bene, di tutti i marchi italiani del gruppo, compresi magari Pucci e Berluti, ma proprio e solo di Fendi e Loro Piana. Se non ve ne foste resi conto, con quella riga Bernard Arnault dichiarava che LVMH commissariava i due marchi italiani. Tre settimane dopo l’annuncio, è seguita la molto discutibile e infatti molto discussa collezione couture Fendi di Kim Jones (vedere alla voce). Loro Piana non ha nemmeno presentato una collezione, mentre il competitor Brunello Cucinelli conquista sempre più spazi e influenza anche a livello associativo e istituzionale. Aspettiamo evoluzioni.

 

B come Body positive. Concetto difficile e ondivago di gran moda, da cui tutti tentano di affrancarsi inserendo una ragazzona robusta in sfilata e nella campagna pubblicitaria senza però sapere come cavarsela col lessico: al momento, la locuzione più frequentata per definire le suddette ragazzone è “fisicità importante” o “fuori dai canoni consueti”. Entrambe indicano una taglia dalla 44 in su e di solito vengono accompagnate da una smorfia o da un sospiro, per lasciar intendere la fatica improba fatta per infilare tutte quelle cicce in un vestito senza snaturarne la linea. Uno stilista a proprio agio con la femminilità come Alessandro Dell’Acqua, che oltre alla sua bella collezione ha disegnato una piccola linea per Elena Mirò (scusate, sono della scuola di Alber Elbaz, definirla “capsule” come fanno tutti non mi è mai piaciuto, soprattutto in questi tempi di pandemia) dice di “essersi applicato a trasformare tecnologicamente i tessuti per aumentarne il comfort, anche quando pesanti come il tweed” e di aver allontanato “qualsiasi soluzione facile, che potesse dare la sensazione di avvolgere le donne in una forma a sacco”, finendo insomma per “dare una motivazione commerciale al politicamente corretto”. Grazie a una serie di mail che mi ha confessato di aver ricevuto subito dopo che si era sparsa la notizia del suo incarico (“mi hanno scritto moltissime donne che non conoscevo, chiedendomi di farle belle, appariscenti, con la vita segnata e le forme esaltate”) ha realizzato abiti che le “fisicità importanti” dovrebbero davvero strapparsi di mano. Però non capiamo perché a testimone della linea sia stata scelta Lara Stone, che è alta quasi un metro e ottanta e pesa 57 chili. D’accordo non “cadere nei cliché della moda curvy” e far fotografare ai Mert&Marcus una giunone, ma siamo sicuri che in questo modo passi il messaggio del body positive?

 

B e ancora B come brassière. È tornata a far capolino, in versione micro, perfino come decoro applicato sui maglioni. Vista molto da Krizia

 

B come buchi. Ma anche trafori, sovrapposizioni, losanghe. Su maglioni, calze, cappotti. Come nella famosa tirata de Il diavolo veste Prada sul ceruleo, caposaldo della sceneggiatura made in fashion, la collezione Maison Margiela Artisanal estate 2020 in cui abiti e soprabiti si muovevano come farfalle grazie a una fitta serie di aperture circolari, l’estetica del buco – geometrico o no – è ormai ovunque. 

 

C come Camera della Moda. Questa volta, davvero ottima. Ricchissima la scelta, ancoché digitale, di sfilate, presentazioni, film. Interessante la piattaforma dedicata ai nuovi talenti afro-italiani

 

C come Cuoio di Toscana. Dopo essersi preso una pausa di riflessione, il nostro consorzio del cuore ha capito che un mondo generalmente calzato in sneakers deve trovare una ragione per tornare a farlo sulle suole di cuoio, ma soprattutto che le suole non possono essere un modello di business unico, in particolare in un paese che, come l’Italia, ha regalato al mondo gioielli di squisita fattura come le sale di cuoio impresso del Palazzo Ducale di Urbino (oltre a paraventi di design, selle, cappotti resistentissimi eccetera). Dunque, la scorsa primavera l’associazione guidata da ha reso noto con un decalogo-manifesto sulla sostenibilità che i tannini usati nella concia sono iper-salutari, e che il cuoio è un prodotto di recupero e di scarti di lavorazione alimentare, dunque altamente sostenibile, si è dato al glamour, chiamando lo stylist-stilista del massimalismo floreale Simone Guidarelli alla direzione creativa di una piccola ma sontuosa collezione che mostra l’infinita versatilità del cuoio, perfino nel vestire da sera. 

 

F come folla. Sono tornate le sfilate con chiusura affollatissima, modello “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo. Il colpo d’occhio, Etro con le sue stampe paisley insegna, è fondamentale.

 

Frange. Siamo seccatissimi di non essere riusciti a visitare la presentazione di Alabama Muse, brand eco della stylist Alice Gentilucci. Quel che abbiamo visto online, però, ci conferma che lo stile nomade-cowgirl-chic, caposaldo della tradizione Etro, non tramonterà mai fra le ragazze chic. E comunque, anche per il prossimo inverno ci sono un sacco di frange. 

 

Kim Jones. Qualcuno, prima o poi, ci spiegherà il perché della sua direzione creativa di Fendi donna (che no, non può essere il suo “feeling per i gusti della strada”, come dicono i sostenitori, perché la strada non necessariamente intercetta il gusto dei top brand: semmai lo riadatta. Che è un po’ l’effetto provocato dai suoi abiti. Una rilettura semplice delle tendenze). Speriamo in bene, perché a Fendi teniamo assai e non possono bastare le borse di Silva Venturini Fendi o i gioielli geniali di sua figlia Delfina Delettrez a riequilibrare l’effetto generale.

 

L come longjohns (puntata due). Il recupero della tuta aderente a gamba lunga decorata, sugli uomini non ci piaceva affatto, e l’avevamo scritto nel giro precedente (sfilate uomo di gennaio), perché i maschi vestiti da mammole con la frangetta non ci piacciono e non ci piaceranno mai, qualunque cosa rappresentino (per un recente articolo riguardavamo una foto di Aubrey Beardsley con la frangetta e non riuscivamo a capire perché lo considerassero tanto bello, ai suoi tempi). Sotto una gonna femminile, invece, i longjohn funzionano moltissimo, purché su quelle gambe lunghe e filiformi che non rientrano nel concetto del body positive (vedere alla voce). Come tutti i modaioli sanno, è stata Prada a rispolverare il longjohn con disegni jacquard geometrici, e nello spazio di un mese tutti hanno capito la tendenza: Ferragamo, per esempio o Pucci (che però faceva longjohns e jumpsuit dal debutto stesso del marchese Emilio Pucci, nel 1947, dunque temiamo proprio che all’origine della tendenza ci sia lui e la sua gioia nel “puccificare” i luoghi più belli del mondo, da Capri a Zermatt. Volendo si potrebbe risalire anche al Rinascimento, però).

 

M come male and female. Cioè maschio e femmina. Volessimo fare gli storici del costume potremmo ricordare tutte le volte in cui i due sessi biologici (no, non ci addentriamo nella questione gender) si sono scambiati gli abiti o ne hanno adottato uno pressoché identico (ve ne diciamo tre random a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo: il busto, le giarrettiere, la redingote, oltre a tutti i broccati a fiori). A sessant’anni-dai-Sessanta del Novecento, e a fronte di una nuova generazione che oggettivamente bada meno al sesso di nascita di quanto ci badassimo noi che abbiamo superato i cinquanta, il tema della interscambiabilità di camicie col davantino ricamato, giacche ampie e stivali si trova ovunque, da Prada a Valentino, e siamo certi che se mai Max mara decidesse di cambiare l’allacciatura dei suoi cappotti, funzionerebbero a meraviglia anche fra i maschi-di-nascita.

 

M come maniche. Meglio aperte, come ali. Ma anche Anni Trenta-e_Settanta, ovvero scivolate attorno alla spalla e rigonfie attorno al polsino. Ricordate Ornella Vanoni e Mina vestite dal costumista-stilista Corrado Colabucci nei programma Rai del sabato sera? Ecco, quelle maniche

 

N come narici. Ognuno ha la sua tecnica per non farsi massacrare il naso dai troppi dilettanti del tampone. Dice la collega del Giornale che infilare le mani sotto il sedere e trattenere il respiro sia una buona soluzione per ridurre il fastidio e il dolore al minimo. Fra le molte adepte alla tisana serale, resta però il dubbio di come facessero le tante “narici d’oro” degli Anni Ottanta.

 

P come pellicce. Sinteticissime. Verdi smeraldo a pelo lungo (MSGM), verde acqua (il gentile cofanetto di delizie omaggiato da Prada a chi assisteva alla sfilata in remoto, en pendant con l’allestimento del video). Nessuno vuole più pelli vere, dicono sconsolati tutti gli stilisti, compresi i Marco Bologna (il brand di Marco Giuliano e Nicolò Bologna) che ne hanno prodotte di molto belle, molto pop, molto colorate, ben sapendo quanto sia inutile spiegare alla gente che una pelliccia sintetica inquina il pianeta (e di conseguenza ammazza specie animali, rendendo il loro habitat ostile) in misura ben maggiore rispetto a una finta. Dunque, evviva le pellicce “revamped” di Fendi, che recupera e tratta vecchie pelli, trasformando cappotti dimenticati nell’armadio in capi splendidi. Poi, c’è qualcuno che non ha capito la differenza fra nuovo e vecchio riciclato, non sapeva, non si era informata, e ha scritto contro Fendi pezzi indignati. Ma tenere cinquant’anni buoni di pellicce della nonna e della mamma nell’armadio (oltre questo lasso di tempo non si può farlo: la concia di un tempo era molto meno accurata rispetto a quella di oggi) significa doverle smaltire.

 

P come pelle. Moltissima vera (Ferragamo, in declinazioni colore diverse e tagli rigorosi), moltissima finta. Dicono tutti “di recupero”. In ogni caso colorata. Bella la versione latex nero lucidissimo di Mgsm.

 

P come platform. Modello zattera. Anche da uomo. Più gli abiti si fanno impalpabili, più aumentano gli stivali combat e le scarpe dalla suola alta.

 

P come pointy sneaks. In un mese, il nostro amato Alber Elbaz ha già fatto tendenza, e le sneakers a punta della sua prima collezione A-Z Factory hanno già iniziato a infilarsi nelle collezioni altrui. In ogni caso, è finita con i modelli di sneaker grandi e grosse che stroncano la gamba.

 

P come protezione. Nulla e nessuno ha saputo esprimerlo con maggiore grazia di Prada nei suoi bomber wrap double face, avvolgenti e trattenuti con una mano, gesto tipico delle signore milanesi e dunque di Miuccia Prada, sul quale, insieme con il socio creativo Raf Simons, ha costruito non solo una narrativa, ma soprattutto una tecnica. 

 

R come regia (e riavvolgere). La prima “sfilata a ritroso” filmata porta la firma congiunta di Massimo Giorgetti di MSGM, uno dei pochissimi talenti emergenti ad essere emerso davvero negli ultimi dieci anni, e di Francesco Coppola, braccio destro di Paolo Sorrentino. Al Teatro Manzoni di Milano, hanno realizzato uno show filmato che, sulle note di un “Manifesto”  scritto e interpretato da Gea Politi, editrice di Flash Art, in collaborazione con il Club Domani del discografico Sergio Tavelli e Andrea Ratti, riavvolge idealmente la storia dell’ultimo anno attorno alla trasformazione di Milano. Le quindici interpreti tra ballerine, attrici, modelle, cuoche, tutte molto diverse tra loro, hanno anche scelto autonomamente i capi da indossare in sfilata. Dice Giorgetti che si è trattato di un esperimento molto interessante per capire le evoluzioni del gusto. Ci sarebbe piaciuto essere presenti.

 

S come Set Design. Hands down, Valentino e Tod’s vincono la competizione. Il primo, per aver mostrato la bellezza struggente e drammatica di un teatro vuoto con un allestimento essenziale ed emotivo del Piccolo di Milano che sarebbe certamente piaciuto al nume tutelare Giorgio Strehler. Il secondo, cioè Walter Chiapponi direttore creativo di Tod’s, per essere riuscito a convincere il gallerista maximo-Massimo De Carlo, a concedergli per il film di lancio della collezione il suo nuovo spazio nella Casa Corbellini-Wassermann, capolavoro razionalista di Piero Portaluppi costruito fra il 1934 e il 1936 per due delle famiglie della grande farmacia e ricerca microbiologica (il metodo di diagnosi della sifilide, e la sua sostanziale scomparsa, si devono ad August von Wassermann). Ci è molto piaciuto anche il set “café Parigi Anni Dieci con Erik Satie al piano in un angolo (poi Erik Satie non amava il pubblico, ma è un’altra questione” di MM6 Maison Martin Margiela. 

 

T come Trucco e Parrucco. E si farà l’amore ognuno come gli va. Resiste il mito della make up artist Pat McGrath, fresco OBE dell’Impero Britannico (Order of the British Empire), ma va tramontando lo styling “one look one fit”, cioè modelli e modelle con un solo taglio di capelli e una sola taglia (più  della seconda, comunque)

 

Vogue Talents. E a fine giornata di sfilate, dopo esserci posti molti quesiti (in onomatopea: un sacco di boh), atterriamo sulla piattaforma di Sara Maino, deputy editor di Vogue, sapendo che ci troveremo di sicuro qualcosa di interessante, ma soprattutto di (almeno relativamente) incontaminato dalle esigenze del marketing. La nuova piattaforma è sviluppata attorno al tema della sostenibilità – come un po’ tutto il mondo di oggi e d’altronde non si può né è giusto fare altrimenti – e porta all’attenzione anche luoghi di incontro e acquisto e progetti in nuce. Fra i nuovi talent (che la squadra di Sara setaccia veramente in tutto il mondo e senza risparmiarsi: ne avemmo la contezza anni fa in Israele), ci aveva già colpiti tempo fa l’iraniana Naza Yousefi (brand Youzefi), che disegna borse di intelligenza architetturale molto rivelatorie della qualità accademica delle facoltà in cui si formano i nuovi designer di Teheran. Da notare anche i nuovi Thom Browne, cioè i francesi Hugues Fauchard e Rémi Bats. Interpretano in modo intelligente e carismatico l’abbigliamento utilitarian, cioè da lavoro. Nome del brand, ça va sans dire, Uniforme.

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