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Un popolo di esportatori. La moda contro tutte le chiusure

Fabiana Giacomotti

Si è aperta ieri l'edizione numero 97 di Pitti Uomo a Firenze, con mille e 200 espositori e molte migliaia di frequentatori professionali

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Firenze. Che l’accordo di libero scambio con il Giappone entrato in vigore esattamente un anno fa avesse portato a buoni risultati, i frequentatori delle fiere di Pitti Immagine l’avevano intuito da un paio di segnali inequivocabili, per esempio che al desk accoglienza dell’edizione 97 di Pitti Uomo aperta ieri, fra i mille e 200 espositori e le molte migliaia di frequentatori professionali, gli ospiti del Sol Levante vantano, unici, un desk riservato. In un anno, il valore delle esportazioni italiane fra Tokyo e Osaka è aumentato del 18 per cento, e sugli stessi moltiplicatori sembra muoversi il business con il Canada dopo la ratifica del trattato Ceta lo scorso settembre, molto sostenuto dalla ministra Teresa Bellanova e moltissimo osteggiato dai Cinque stelle e da Coldiretti, per via della diversa posizione fra Unione europea e Montreal sugli ogm. Ma la crescita del 13 per cento delle nostre esportazioni verso il paese nordamericano e la ricca, doppia cifra di aumento delle vendite dei beni prodotti in Italia destinati al Giappone, secondo il viceministro agli Affari esteri Ivan Scalfarotto – tornato alla guida del nostro business oltre confine fra gli applausi di moda e design dopo lo iato del primo governo Conte – sono la migliore risposta a chi ritiene che si possa “governare con una politica di chiusura” e a chi soffia sui venti di guerra alzati dalla crisi Iran-Usa.

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Firenze. Che l’accordo di libero scambio con il Giappone entrato in vigore esattamente un anno fa avesse portato a buoni risultati, i frequentatori delle fiere di Pitti Immagine l’avevano intuito da un paio di segnali inequivocabili, per esempio che al desk accoglienza dell’edizione 97 di Pitti Uomo aperta ieri, fra i mille e 200 espositori e le molte migliaia di frequentatori professionali, gli ospiti del Sol Levante vantano, unici, un desk riservato. In un anno, il valore delle esportazioni italiane fra Tokyo e Osaka è aumentato del 18 per cento, e sugli stessi moltiplicatori sembra muoversi il business con il Canada dopo la ratifica del trattato Ceta lo scorso settembre, molto sostenuto dalla ministra Teresa Bellanova e moltissimo osteggiato dai Cinque stelle e da Coldiretti, per via della diversa posizione fra Unione europea e Montreal sugli ogm. Ma la crescita del 13 per cento delle nostre esportazioni verso il paese nordamericano e la ricca, doppia cifra di aumento delle vendite dei beni prodotti in Italia destinati al Giappone, secondo il viceministro agli Affari esteri Ivan Scalfarotto – tornato alla guida del nostro business oltre confine fra gli applausi di moda e design dopo lo iato del primo governo Conte – sono la migliore risposta a chi ritiene che si possa “governare con una politica di chiusura” e a chi soffia sui venti di guerra alzati dalla crisi Iran-Usa.

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“In questo momento di ritiro degli Stati Uniti dalla questione mediorientale, un vuoto progressivo che qualcuno cercherà sicuramente di riempire, l’Europa deve fare un salto da gigante economico e politico, anche facendo forza sulle sue capacità economiche: non soltanto per una questione di vicinanza, ma perché il mondo se lo aspetta”, dice Scalfarotto all’apertura della manifestazione, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Segnala che “se al governo non spetta fare impresa” (semmai difenderla: accenna al fatto che “un paese industrializzato non possa andare a comprare l’acciaio all’estero” rafforzando la sentenza del Tribunale del Riesame contro lo spegnimento del forno 2 dell’Ilva, e strappa l’applauso), nondimeno questo stesso esecutivo deve cercare di sostenere, con incentivi specifici, quelle che, fra i sei milioni di piccole imprese che formano il tessuto industriale italiano, vorrà aumentare il proprio tasso di internazionalizzazione: “Se fra il 2010 e il 2017, come ci segnala la Sace, abbiamo mantenuto la nostra ricchezza nazionale, è perché siamo rimasti la settima potenza esportatrice del mondo e il quinto paese per avanzo commerciale”.

 

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Il 7 per cento del pil (a dati 2018) lo dobbiamo alla nostra prontezza nel muoverci all’estero e a quella di restare in pace: per citare un filosofo caro al Foglio, Frédéric Bastiat, “dove non passano le merci passano gli eserciti”. E noi siamo sempre stati più mercanti e scopritori che soldati. Dunque, ecco l’Ice che annuncia facilitazioni e nuovi sportelli di ascolto e consulenza per le aziende (dopotutto, abbiamo una costosissima rete di quasi trenta uffici di promozione del commercio nel mondo) ed ecco il presidente di Confindustria Moda, Claudio Marenzi, che evidenzia come l’unica filiera “interamente sostenibile” del settore sia quella italiana, “un paese dove sta crescendo la coscienza etica e i consumatori”, i millennial e la generazione X in particolare, si dichiarano disposti a pagare fino al 10 per cento in più per un capo che abbia rispettato i nuovi codici dell’ecologia. Marenzi non parla alla platea degli imprenditori del tessile, abbigliamento e accessori che queste cose le sanno benissimo, così come non ha bisogno di spiegare queste cose a Scalfarotto e nemmeno al sindaco di Firenze, Dario Nardella, che anticipa il progetto di un’asse fra grandi città europee nel nome della sostenibilità, annunciando un prossimo incontro con la sua omologa parigina Anne Hidalgo. Parlano, di tutto questo, alle telecamere, ai giornali, a voi che leggete questo articolo, sperando che, magari, passi quel messaggio non rassegnato sul paese e sulla narrazione che noi stessi ci facciamo: nessun altro paese, dicono, parla male di se stesso come riusciamo a fare noi.

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