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Doikeyt: noi stiamo qui ora!

Vincenzo Pinto

di Massimo Pieri, Mimesis, 187 pp., € 16 euro

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Il centenario della Rivoluzione d’ottobre è anche l’occasione per riconsiderare la storia del socialismo da una prospettiva differente. Questo è ciò che fa Massimo Pieri, fisico e matematico “imprestato” all’alta divulgazione storica, nel saggio dedicato alla socialdemocrazia ebraica (il Bund). Di ciò che è stato il Bund dalla fine dell’Ottocento sino al suo totale annientamento a opera dei totalitarismi (quello nazista in maniera più rapida e generalizzata; quello comunista in maniera più lenta e apicale) sappiamo ben poco in Italia. Al di là della crisi della socialdemocrazia novecentesca, incapace di includere nelle sue categorie ontologiche (prima che politiche) i diseredati del Terzo mondo, e dell’annientamento totalitario, la storia del Bund sembra essersi conclusa nel 1948 con la nascita dello stato d’Israele. Cosa ne pensa Pieri?

 

L’autore non ci fornisce una storia generale del Bund dalle origini (1897) sino al secondo Dopoguerra. Ma termina il racconto a cavallo della rivoluzione d’Ottobre. Non indaga quindi la nascita del “mito” del Bund, di quel proletariato ebraico capace di apportare un contributo eccentrico e innovativo alla causa rivoluzionaria socialista da una prospettiva autenticamente inter-nazionale. Si concentra fondamentalmente sulle origini intellettuali e sul dibattito politico in seno alla socialdemocrazia russa circa la sua “liceità”. Il tema centrale è la questione nazionale ebraica.

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Se è vero che il tema della questione nazionale (e del marxismo) è stato sviscerato in lungo e in largo per tutto il Novecento, lo è altrettanto che il caso ebraico è stato spesso declinato in base agli “effetti” politici, cioè al sionismo e al socialismo marxista. Pieri ricostruisce il dibattito in seno agli intellettuali ebrei che formarono il Bund sulla base della piena consapevolezza che non ci fossero altri modi di avvicinare la massa operaia ebraica se non superando il materialismo storico e valorizzando la “diversità” nazionale. Un progetto non dissimile da quello dell’intellettuale ebreo marxista-sionista Ber Borochov, che parlava di “condizioni di produzione” proprio per marcare il carattere storico-esistenziale della genesi di una nazione e l’importanza della lingua (lo yiddish, nel caso specifico).
Ma la vera differenza col sionismo era che il Bund intendeva dar voce alla spinta rivoluzionaria del proletariato ebraico nella diaspora, qui e ora, non là e un domani. Di qui l’espressione di “doikeyt”, cioè di “hiccità”: né emigrazione, né assimilazione, ma lotta per un socialismo “topico”. L’autore ricostruisce però il dibattito solo all’interno della socialdemocrazia, soffermandosi sulla posizione di Marx, Lenin-Stalin, Bauer, Kautsky, Luxemburg e, infine, Léon. Il nesso fra diritti nazionali e lotta di classe non è stato colto da nessuno di loro, ossia è stato di fatto annullato a favore della nazione più forte, maggioritaria e “cristiana”.
Il perché di questa “miopia” si deve alla “pregiudiziale antisemita”: l’ebreo non era ritenuto membro di una nazione come le altre. Quindi la posizione del Bund era doppiamente rivoluzionaria: da una parte affermava l’esistenza delle nazioni (un’esistenza però etica, non strumentale) e, dall’altra, richiamava l’importanza della tradizione ebraica. L’esperienza del Bund si realizzò al meglio in Polonia, dove il programma della “doikeyt” riuscì a realizzare clandestinamente alcuni dei suoi punti programmatici. L’utopia di una nazione socialista e rivoluzionaria “senza un territorio” appare – agli occhi di Pieri – il vero patrimonio del Bund allo sviluppo di un mondo libero, democratico e tollerante.

 

DOIKEYT: NOI STIAMO QUI ORA!
Massimo Pieri
Mimesis, 187 pp., € 16 euro

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