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Lettere rubate

Patrizia Cavalli fa camminare insieme la comicità e la tragedia, con passi giapponesi

Annalena Benini

La felicità è l’avvento del miracolo. Come in questa raccolta di prose figurative e vertiginose, in cui appare lo strabiliante, il miracolo, il colpo di genio, e a volte infatti, improvvisa, anche la poesia

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Non sono nata per essere ragionevole. Sono nata per amare, per essere felice,

per odiare, per immaginare, per inventare, per capire e anche,

di tanto in tanto, per essere ragionevole, ma non devo essere ragionevole.

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Patrizia Cavalli, “Con passi giapponesi” (Einaudi)

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La ragionevolezza tende al possibile, scrive Patrizia Cavalli, e la felicità non può essere catturata dal possibile. La felicità è l’avvento del miracolo. Come in questa raccolta di prose figurative e vertiginose, in cui appare lo strabiliante, il miracolo, il colpo di genio, e a volte infatti, improvvisa, anche la poesia. Patrizia Cavalli offre, in questo libro prezioso, preziosissime storie, racconti, pensieri, frammenti, illuminazioni e ricordi, costruisce per dettagli la storia di un’esistenza.

 

“Anni fa, nel periodo degli slogan ‘Potere a qualcuno’, con Elsa Morante abbiamo festeggiato il Capodanno comprando cinque chili di carne da distribuire ai gatti della Piramide. Gettando questa carne lei gridava: ‘Potere ai gatti! Potere ai gatti!’. C’era lì accanto un triste turista dell’Est che diceva: ‘Da noi i gatti li uccidono tutti’” (dalla prosa “Gattare”).

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A ogni pagina c’è una confessione, un nemico, una ribellione, una speculazione. Patrizia Cavalli si ribella contro il viaggiatore intelligente che viaggia leggero e “guarda con superiore sguardo l’altrui bagaglio”. E costringe alla colpa chi prepara pesantissime valigie. Ma come si fa a sapere che cosa si vorrà indossare in quei tre giorni, si chiede Patrizia Cavalli, con tre risvegli, tre sonni, tre mattini, le varianti, gli accidenti, il clima. Chi ha bisogno di un piccolo bagaglio non immagina proprio niente, tre paia di mutande e due camicie, lasciamolo partire così, leggero e senza immaginazione, monolite soddisfatto, con bisogni pochi e semplici. Patrizia Cavalli mostra fiera la propria antipatia, anche la vendetta, la vanità, e in cambio sa offrire l’anima anche a un paio di scarpe, a una colonna di porfido, sa prendere in giro se stessa in un modo feroce, e sempre con grande amore, di sé e delle parole. La comicità e la tragedia camminano insieme, con passi giapponesi, e le pagine su infanzia e adolescenza sono dolorose e violente: individuano il punto esatto dell’esasperazione, la furia e la spietatezza di una figlia che non vuole assistere alla decadenza di sua madre, che la trasforma in un nemico perché la vede indebolita e perduta, che prova repulsione per una donna che si infligge da sé la crudeltà rinunciando la mondo. “L’immagine di mia madre mi si è deformata davanti agli occhi senza che io me ne accorgessi, senza aver fatto in tempo a preservare i tratti di lei che mi piacevano. Il suo cambiamento mi ha colto di sorpresa, quando non si conosce la nostalgia e il passato, ma soltanto l’adesione al presente. Mi è sfuggita di mano, e mi ha fatto brutalmente conoscere la dimensione del tempo e della rovina”.

 

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La malinconia incontra il desiderio di comprensione della realtà, ma sempre un po’ discosta, sempre un po’ diffidente, e invece a braccia aperte verso l’irragionevole, l’illuminazione, l’abisso. Non un banale mal di testa, quindi, ma un mal di testa che altera i sensi, preceduto da euforia e accompagnato da delirio e azioni folli, raccontato con la precisione ironica di chi conosce lo sdoppiamento e non perde mai lo sguardo esterno. E a volte, irragionevolmente, l’irrompere magnifico della poesia:

Quello che è mio potrebbe essere vostro?

No, se fosse vostro non sarebbe mio.

Ma il mio cos’è? Dov’è?

Non sono certo io, non lo ritrovo in me.

Di me mi sento infatti mandataria,

ma in nessun modo, mai, la proprietaria.

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