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La versione di Cassese

Una politica basata sull’antipolitica fa riaffiorare l’idea di Rousseau

Il vincolo di mandato esiste perché la scelta della persona è una “designazione di capacità”. Ma servono i partiti. Parla Sabino Cassese

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Continuano le diaspore, gli smottamenti, prima dal Pd, poi da Forza Italia, infine dal M5s. Il parlamentare non deve rispettare la parola data agli elettori? Rispettarla almeno nel senso di rimanere nel raggruppamento politico nel quale è stato eletto? Si può sciogliere da questo vincolo a piacimento? Non ha un vincolo di mandato, almeno in questo ristretto senso?

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Continuano le diaspore, gli smottamenti, prima dal Pd, poi da Forza Italia, infine dal M5s. Il parlamentare non deve rispettare la parola data agli elettori? Rispettarla almeno nel senso di rimanere nel raggruppamento politico nel quale è stato eletto? Si può sciogliere da questo vincolo a piacimento? Non ha un vincolo di mandato, almeno in questo ristretto senso?

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Come ha osservato Claudio Cerasa (Il Foglio, 31 dicembre 2019), la proposta di introdurre il vincolo di mandato per i parlamentari, caldeggiata dal M5s insieme con quella di aumentare il tasso di democrazia diretta, sembra sparita o almeno passata in secondo piano. Il problema, comunque, si pone continuamente con questi definiti correntemente “cambiamenti di casacca”, perché i parlamentari che si allontanano dalle tre formazioni politiche debbono trovare collocazioni diverse nei gruppi parlamentari, che – di regola – corrispondono ai partiti.

Ma l’espressione vincolo di mandato ha due significati: vincolo a rispettare l’appartenenza politica con cui ci si è presentati, vincolo agli indirizzi che sono indicati dagli elettori. Il primo significato è più debole, il secondo più forte, e risponde a un ideale di democrazia diretta, in cui il parlamentare è solo un nuncio.

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Distinzione giusta, che va inquadrata in due elementi di contesto. Il primo è messo molto bene in luce in un bel libro dello storico Miguel Gotor (L’Italia del Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Torino, Einaudi, 2019), in cui il periodo che si apre nel 1994 e arriva fino ad oggi è considerato in maniera unitaria e caratterizzato da alcuni elementi comuni: prevalenza dell’antipolitica e della politica fatta mediante l’antipolitica, personalizzazione, deriva oligarchica, alternanza. Questo giocare dei politici con l’antipolitica spiega perché riaffiorino idee rousseauiane, come quella del mandato. Il secondo elemento di contesto, che riguarda il M5s in particolare, consiste nel rifiuto del modello partitico (il Movimento e Forza Italia rifiutano persino il nome di partito). Di qui una contraddizione: si può far valere una “disciplina di partito” nei confronti di appartenenti a un mero “movimento”?

 

Ma perché e come nasce il divieto costituzionale di imporre vincoli di mandato sui parlamentari??

Nei cosiddetti parlamenti precedenti alle rivoluzioni borghesi, vi erano votazioni per classi e categorie e “Cahiers des doléances”, elenchi di richieste redatti dalle assemblee delle categorie prima della elezione dei deputati. Come osservò Edmund Burke nel famoso discorso ai suoi elettori di Bristol del 1774, tuttavia, se i parlamentari vengono ritenuti come degli ambasciatori, dei nunci, non possono discutere per poi deliberare, ma solo contrapporsi, in quelle assemblee che chiamiamo parlamenti. Si decise quindi che le elezioni servissero solo a indicare i più capaci nella gestione pubblica, non a indicare loro quel che dovessero fare. Insomma, le idee di Montesquieu prevalsero su quelle di Rousseau. Si stabilì che i parlamentari dovessero esser liberi di determinare la propria condotta.

 

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Chi e quando lo stabilì?

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Le costituzioni rivoluzionarie francesi, ma non quelle del 1789, 1791 e 1793. La prima fu quella del 5 Fruttidoro dell’Anno III (22 agosto 1795), il cui articolo 52 disponeva: “I membri del corpo legislativo non sono rappresentanti del dipartimento che li ha nominati, ma di tutta la nazione e non può essere loro dato mandato alcuno”. Per vedere il tracciato della norma, saltiamo allo statuto Albertino, che è rimasto in vigore dal 1848 alla Seconda guerra mondiale, il cui articolo 41 disponeva: “I deputati rappresentano la nazione in generale e non le singole province in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori”. L’articolo 21 della Costituzione di Weimar (1919) recitava: “I deputati rappresentano il popolo. Essi non dipendono che dalla loro coscienza e non sono vincolati da alcun mandato”. L’articolo 67 della nostra Costituzione dispone: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Per intendere la differenza, la Costituzione sovietica del 10 luglio 1918, all’articolo 3 dichiarava che si voleva “assicurare alle masse lavoratrici la totalità del potere” e all’art. 7 che “il potere deve appartenere unicamente ed interamente alle masse lavoratrici e ai loro organismi rappresentativi, i soviet […]”. I deputati erano rappresentanti plenipotenziari delle masse lavoratrici.

 

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Questo conduce alla conclusione che i parlamentari non rappresentano gli elettori: perché li chiamiamo “rappresentanti”?

La conclusione è stata tante volte ribadita dai costituzionalisti più attenti. La rappresentanza pubblicistica non ha nulla a che vedere con quella privatistica. Per quest’ultima, un condomino può dare ad altro condomino il compito di votare in suo nome e conto, dandogli direttive su come votare. Nella rappresentanza pubblicistica, il rapporto è molto diverso. Il voto è segreto, quindi il rappresentante non sa chi lo ha votato, né ha un suo mandato. La scelta della persona è – scriveva Vittorio Emanuele Orlando nel 1889 – una “designazione di capacità”.

 

Ma così si perde il rapporto tra società e Stato che dovrebbe essere assicurato dalle elezioni.

Quella “designazione di capacità” era facile quando il suffragio era ristretto (De Sanctis, Tocqueville, Guizot vennero eletti con poche centinaia di voti). Più tardi, anche con il suffragio allargato, bastava un migliaio di voti. Oggi sono necessari decine o anche centinaia di migliaia di voti. Anche per questo sono necessari i partiti. Se, invece della loro “liquefazione”, vi fossero ancora i partiti – organizzazioni sociali, con propri programmi, l’elettore potrebbe controllare la condotta del parlamentare, e non votarlo alle successive elezioni. Ma questo circuito è divenuto molto imperfetto con la crisi dei partiti come organizzazioni sociali.

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