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Il Foglio Arte

Rivedere l’arte dopo mesi a esporre il “lato v”

Francesco Stocchi

Basterà l’impatto  emotivo con la densità delle opere? La scommessa della fiera ARCO a Madrid, ultima a chiudere e  prima a riaprire. Ma resta lontano il “tutto come prima”

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Qualche giorno fa ho visitato ARCO, la fiera d’arte contemporanea di Madrid, quest’anno giunta alla 40° edizione. Una delle fiere più antiche nel panorama internazionale che per uno strano mix di casualità e predisposizione d’animo è stata l’unica a non aver dovuto cancellare un’edizione causa pandemia. Perfino gli inflessibili svizzeri di ArtBasel si sono trovati a dover sovvertire la loro programmazione trasformando il consueto appuntamento di giugno in una diffusa offerta online chiamata Viewing rooms. Già, le piattaforme online, descritte come occasioni per accelerare il corso evolutivo dell’esperienza offerta al pubblico ma quando tali cambiamenti vengono imposti dalle circostanze, per quando ben pensati ed eseguiti, rappresentano comunque un ripiego. Non c’è fiera, galleria, museo o Biennale che non abbia esposto il suo lato V (virtuale), offrendo contenuti online di diversa natura, qualità e urgenza. Sentendo i fruitori più disparati sembra che siamo arrivati a un grado di saturazione dell’offerta, la corsa generale è ora verso il format più innovativo il che determina una standardizzazione del prodotto. Piuttosto che accelerazioni temporali, queste trasmigrazioni online dei contenuti potrebbero invece rappresentare un futuro che forse non vorremmo?

 

Arrivando prepotentemente, saltando le progressive tappe evolutive necessarie per evitare reazioni nostalgiche o filo-luddiste, le offerte digitali finiscono per presentarsi in tutte le loro incongruenze, una volta liberate da quella veste di necessità che le rendeva insostituibili. Il pubblico vede tali eventi quali occasioni di ritrovo e accesso diretto, esclusivo all’opera d’arte, l’unicum per eccellenza, desideri che il virtuale non potrà mai soddisfare, a vantaggio dell’ubiquità e l’efficienza. Per quanto l’evoluzione dell’offerta televisiva di eventi sportivi risponda ai (presunti) bisogni del pubblico, un po’ come i virtual tours delle mostre, questa non sostituirà mai l’esperienza diretta. Il pubblico sembra si sia adattato, ma molti, forzati dall’esperienza mediata, hanno realizzato che la partita vista allo stadio è un’altra faccenda e appena possibile non ne seguiranno più una in televisione. ARCO è riuscita a non dover scegliere, rappresentando l’ultima fiera europea aperta al pubblico prima della pandemia (febbraio 2020) e la prima a riaprire in questa speciale edizione estiva. Scarso sviluppo online, gli sforzi erano concentrati nel far ritrovare la gente. Molta curiosità quindi, maggiormente legata all’atteggiamento del pubblico, dei collezionisti, dei galleristi. Siamo già ripiombati in un “tutto come prima”? Prevarrà la nostalgia sulla cautela? Non era troppo presto? Le domande che circolavano erano di questa natura. In un sistema percepito come libero e all’avanguardia ma fortemente legato alla tradizione e ai suoi format, divenuti riti, i cambiamenti preoccupano e vengono spesso accolti con sospetto. Al netto dei rischi legati all’imponderabile, la fiera spagnola si era posta tre obiettivi per affrontare l’edizione che avrebbe segnato la ripartenza: riattivare il mercato, promuovere la riunione dei professionisti dell’arte contemporanea e riproporre il rapporto diretto con l’arte. Per ottenerli ci vuole qualità, che crea internazionalità, che a sua volta garantisce la presenza di collezionisti.

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Personalmente, ero curioso di capire se al netto delle buone intenzioni e dell’ottima organizzazione, il tempismo fosse quello giusto. Una fiera si finalizza mesi prima, condizione complessa in questo periodo di temporalità bislacche. Mi dirigo allora verso l’aeroporto di partenza per venire a conoscenza di crescenti focolai in varie parti della penisola iberica. Chiamo un collega madrileno che mi rassicura che i contagi sono solo per i “juvenes”, categoria rispetto alla quale lui e io abbiamo inesorabilmente sempre meno in comune. Malgrado non si inizi con i migliori auspici, godo di un eccellente disposizione d’animo, mi muovono curiosità fanciullesche e mi sento forte di gamba, condizione sempre utile nei giorni di fiera.

 

Quindi ARCO decide di rischiare puntando sulla presenza. Un’edizione ridotta, da 200 a 130 gallerie, ma anche quest’anno la fiera spagnola gode dell’impegno delle Loro Maestà, il Re e la Regina di Spagna, che hanno presieduto l’inaugurazione ufficiale. Arrivato dopo i fuochi d’artificio, sorrido nel trovarmi nel ritorno dell’uguale. Il primo impatto, sia visivo che emotivo, è quella densità di opere che solo una fiera può offrire, nel bene e nel male. Tante opere ovunque svolge lo sguardo, sensazione che avevo per un po’ dimenticato ma ora, così tanta quantità appare improvvisamente un privilegio: arte, spesso nuovissima arte, proveniente da tutto il mondo, concentratasi per pochi giorni, in un unico luogo. Quindi, densità che invita a un’operazione di selezione più che di assorbimento. I galleristi sono lì in attesa, solerti a offrire spiegazioni, dispensare convincimenti e regalare segni di compiacimento come se in questi mesi nulla fosse successo. Il ricordo che questi stessi spazi fieristici furono usati durante la pandemia per migliaia di ricoveri in terapie intensive sembra evaporato. Più ampi del solito, i corridoi non creano calca ma un giusto equilibrio per non sentirsi soli ma sempre comunque parte di un evento esclusivo. Mascherine d’obbligo e temperatura rilevata all’ingresso come da prassi. L’immagine generale si ripropone uguale a quella che già conoscevamo, lo spirito generale pure, nell’osservare i sorrisi compiaciuti degli avventori, ma i galleristi cosa pensano? Il pubblico c’è, i collezionisti pure (provenienti da 23 paesi ci viene sottolineato), la voglia di ritrovarsi non manca persi nella sublima arte dello small talk, ma gli affari come vano?

 

La fiera è un luogo di incontro, occasione di dibattere sull’immediato futuro, scambiare punti di vista ma rimane pur sempre un evento nato per vendere opere d’arte. Osserviamo, chiediamo, le reazioni sono diverse. Gli spagnoli sembrano soddisfatti, sottolineando che le aspettative erano basse quanto il morale e la fiera è riuscita in qualcosa di straordinario. La prima a riaprire a livello internazionale. Quindi una buona occasione di ripresa e di riscossa emotiva, i guadagni non sono importanti ma neanche le perdite ci dicono. Comunque si sa, gli spagnoli non si lamentano mai. Una galleria francese è arrabbiata invece, non tanto con la fiera ma con lo stato generale delle cose. “Un museo mi chiede uno sconto, arrivo fino al 35 per cento e viene rifiutato come se non fosse abbastanza. Mi sento umiliata”. Il problema di gestione economica sembra quindi essere anche delle grandi istituzioni, ma si sa i francesi si lamentano sempre. Un’edizione sostanzialmente nazionale, più votata a dare uno scossone generale che ottenere grandi numeri. Qualche presenza europea e comunque si sente l’assenza degli americani. La qualità dei discorsi invece verrebbe da definirla metafisica. Si parla un po’ del passato, molto del futuro. Il presente sembra totalmente assente. I discorsi (cioè le critiche) vertono sulla prossima fiera di Basilea, annunciata eccezionalmente per settembre. L’incertezza generale sembra ancora regnare, facendo sembrare l’organizzazione svizzera inappropriatamente rigida e distante dai bisogni comuni. Abituati in questi ultimi 18 mesi a occuparci dell’immediato (numeri di contagi in tempo reale, ospedalizzazioni, disposizioni governative, confronti con paesi esteri…), il rifugio nel passato o fuga nel futuro denotano ancora un bisogno di evasione dal peso del presente. Questo malgrado segni tangibili di ripresa come questa fiera ha mostrato. C’è ancora tanto da fare prima di scongiurare lo spettro (o l’auspicio a seconda dei casi) del “tutto come prima”.
 

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