(Foto: Annie Spratt)

Il figlio

Natale sottovuoto

Valentina Furlanetto

Storia di Ayomide Folorunso e di quei 25 dicembre senza sua madre. “Ma hai mangiato?”

Nevica. E’ arrivato un pacco dal Veneto. Dentro c’è tutto, rigorosamente sottovuoto: baccalà, porcini, castagne, radicchio, soppressa, polpette, noci e l’ansia di mia madre. L’ho messa in frigo, con tutto il resto, la tirerò fuori poco per volta. Passeremo il Natale lontani? Ci ammaleremo? Funzionerà il vaccino? Quando ci si rivedrà? Hai dato da mangiare ai bambini? Ecco, questa soprattutto è la domanda.

 

 

 

 

Che io abbia un ascesso al molare sinistro o un problema di lavoro, che non sappia strapiantare le ortensie o ci sia una minaccia nucleare, mia madre chiude la conversazione al telefono chiedendo: “Ma hai mangiato?”. Se hai mangiato, sembra voler dimostrare, tutto si risolverà. A me automaticamente mi si chiude lo stomaco e mi sale l’irritazione, mi fa più male il dente, mi scoppia la testa, il problema di lavoro mi pare irrisolvibile, butto le ortensie, sfido l’Iran con una provetta di uranio impoverito. Ma respiro a fondo e le dico soltanto “Ho mangiato”.

 

Ultimamente non le basta, la domanda è diventata: “Ma i bambini hanno mangiato?”. La rassicuro, ma sento che il biasimo è dietro l’angolo, che storce un po’ il naso, che scuote la testa, che pensa per fortuna le ho mandato il pacco. E in effetti per fortuna. Tiriamo fuori un cibo alla volta ogni giorno da inizio dicembre, come un calendario dell’Avvento delle papille gustative. Il lunedì il baccalà, il martedì i funghi, il mercoledì il radicchio. Apro il sottovuoto e tutto si sprigiona: la Laguna, il Montello, la nebbia. Quando il giovedì mio padre scopre che mia madre mi ha mandato un pacco si stizzisce un po’. Potevo metterti dentro anche le mie cose, dice: vasi di miele, la verdura dell’orto e anche un po’ della mia, di ansia. Ma papà, dico io, poi non si mantiene. Sottovuoto, dice lui. Ed è chiaro che ormai per i miei il mantra è quello.

 

Si affrettano a mandarmi pacchi perché passeremo probabilmente il Natale lontani. Questa prospettiva aleggia sopra di noi, si gonfia come una nuvola nera: ci vogliono rubare il Natale, ci vogliono rubare lo sci, ci rubano il diritto al petardo in strada, alla mutanda rossa, al bacio della zia ubriaca. Quando qualcuno lo dice noi non ci aggreggiamo, ma è chiaro che ci sentiamo defraudati, ci sentiamo derubati dei nostri Natali tutti assieme, anche se sappiamo che il senso del ridicolo è dietro l’angolo.

 

E infatti si presenta puntale quando intervisto Ayomide Folorunso, campionessa italiana nei 400 metri, che butta lì, fra un discorso e l’altro, che quando era bambina è stata lontana dalla sua mamma tre anni. Non un Natale, ma tre anni interi. “E’ successo a molti” dice derubricando il fatto a piccolo incidente di percorso e devi insistere per strapparle che certamente quella mamma è mancata, certamente la nostalgia c’era. “Avevo cinque anni quando è partita. Quello che sapevo era che era andata a fare un lungo viaggio, che prima o poi saremmo andati a trovarla” dice Ayomide, che è un’atleta, ma è anche una poliziotta e una studentessa di medicina.

 

“Mia mamma”, racconta, “era laureata in Scienze e Tecnologie alimentari in Nigeria, ha lasciato la famiglia perché sperava di trovare un lavoro migliore. Pensava che sarebbe stato facile perché l’Italia è la patria del cibo e lei appunto aveva una laurea in quello. Invece non è stato così, la sua laurea non valeva nulla qui, allora ha fatto di tutto: ha lavorato in fabbrica, ha fatto l’operatrice socio-sanitaria. Solo ora realizzo quanto deve essere stato pesante per lei. Ma è una persona determinata, infatti poi è tornata a scuola e proprio ora si è laureata in Italia”.

 

 

 

 

Dai cinque agli otto anni Ayomide è stata accudita dagli zii e dal papà. Ancora oggi “è lui che spesso mi chiede se ho mangiato abbastanza. Passavamo i Natali con lui, vedevamo la mamma nelle foto, con la neve e gli alberi di Natale, che da noi non esistevano. In Nigeria il regalo più ambito a Natale era una gallina, viva”.

 

Eccolo quest’uomo, nigeriano, che ha accudito le sue figlie per tre anni perché la giovane moglie appena laureata trovasse un suo lavoro in un altro paese, eccoli lì tutti i nostri pregiudizi e stereotipi. Quando chiedo ad Ayomide come ha fatto a sopportare tutti quegli anni senza la mamma sfodera una maturità difficile da incontrare in una ragazza di 24 anni. “Ci sono sacrifici da fare”, dice, “e non si può fare altrimenti. E’ una situazione difficile fino a che la si vive, ma bisogna proiettare lo sguardo un po’ più avanti, pensare che non sarà per sempre”.

 

Ecco, mamma, bisogna fare così, pensare che non sarà per sempre, che presto ci rivedremo. Tu che ci parli attraverso il cibo, che mangi così poco e cucini così tanto. Che mi chiedi sempre se abbiamo mangiato e a quella domanda ieri ne hai aggiunta un’altra, più insidiosa, più lungimirante: “La vuoi anche tu la macchina per il sottovuoto?

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