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Le madri preoccupate per i loro figli, ribelli di Hong Kong con le maschere antigas

Giulia Pompili

La battaglia a volte entra pure nelle case, i genitori pensano al futuro dei figli, sotto un regime tutto sommato sopportabile, ma quei ragazzi parlano di princìpi non negoziabili

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Cara Annalena, alla stazione della metropolitana di Wan Chai, a Hong Kong, ci sono ancora i teli neri a coprire alcune macchinette per i biglietti. Il cartello dice: in manutenzione per atti di vandalismo. Così li chiamano: vandali. E io non escludo che possano esserci dei vandali, tra i ragazzi che ho incontrato, ma alcuni di loro mi hanno fatto passare sotto ai ponti pedonali dai quali la polizia, durante gli scontri più violenti, sparava loro addosso i lacrimogeni. I più piccoli hanno quindici, sedici anni, ascoltano Billie Eilish, e sanno tutto sulle maschere antigas. Quando tornano a casa, dopo le manifestazioni, qualcuno nasconde l’elmetto. Perché spesso le madri hanno paura di questi figli che tutte le settimane scendono in strada, e fingono di non essere quelli della prima linea. I genitori di questi ragazzi hanno conosciuto il colonialismo, conoscono la Cina, e quanto è cambiata. La battaglia a volte entra pure nelle case, le madri pensano al futuro dei figli, sotto un regime tutto sommato sopportabile, ma quei ragazzi parlano di princìpi non negoziabili – la libertà di prendere lo smartphone e aprire i giornali stranieri, i social network, leggere i libri che vogliono, dire quello che pensano.

 

La polizia è andata a prenderli nelle scuole. Gli arresti di massa servono a spaventare i ragazzi, che poi escono su cauzione e magari non possono più viaggiare, andare a studiare all’estero. Alimentare la loro sete di libertà. Ma non li ferma una madre preoccupata, e non li ferma neanche la paura dei manganelli, dei lacrimogeni, di avere la fedina penale sporca per “vandalismo”. Ho incontrato un ragazzo che lavora in una start up e fino a poco tempo fa voleva diventare giornalista. Mi ha fatto un sacco di domande (“ma come fai, se l’intervistato non risponde alla tua domanda? E fino a che punto puoi insistere?”). Poi mi ha detto: non so se Hong Kong sarà ancora a lungo un posto dove poter fare delle domande.

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