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Le violenze al Beccaria e una domanda morale difficile per tutti

Cristina Giudici

Le parole dell’arcivescovo Delpini, le analisi del cappellano don Burgio e del garante di detenuti Maisto. Un buco nero

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Ci troviamo di fronte a un tema complesso, quello della carcerazione, a cui dovremmo trovare alternative”, dice al Foglio l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, riflettendo sulle violenze nel carcere Beccaria: “E poi ci sono le persone, i ragazzi minorenni che commettono un reato, vanno contenuti ma anche aiutati a distinguere il bene dal male. Soprattutto se sono stranieri e soli”.

“Non li possiamo trattare come numeri ma dobbiamo trattarli come persone da accogliere, da seguire con attenzione. Ci vorrebbe un maggior investimento nell’educazione, nella possibilità di trovare più soluzioni alternative alla detenzione, nelle comunità”, chiosa monsignor Delpini. Quale lezione possiamo imparare da un contesto degradato e tossico in cui un agente della polizia penitenziaria, in un istituto di detenzione per minorenni, intercettato, non capiva perché il direttore dovesse darsi pena per un marocchino picchiato che non parla italiano? Un problema etico prima ancora che gestionale, una domanda difficile abbiamo rivolto a un’autorità morale, l’arcivescovo di Milano Delpini, che ha affermato più volte nei suoi discorsi pubblici la necessità di una rivoluzione morale per la sua città e non solo (alcuni suoi interventi sui temi della giustizia e della legalità sono stati raccolti nel volume “Più giusti più liberi”). Sebbene non voglia giustamente entrare nel merito di un’indagine della magistratura né dare giudizi perentori, monsignor Delpini ha però voluto esprimere la sua preoccupazione cristiana per minorenni ai quali la società dovrebbe riuscire a dare delle prospettive.

 

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L’accusa da parte della procura milanese di ripetute violenze contro i minori detenuti all’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria, che ha portato all’arresto di 13 agenti penitenziari (e a otto sospensioni) apre il capitolo di un libro nero che mai avremmo voluto leggere all’interno di una lunga ordinanza di custodia cautelare. Il capitolo di un libro che secondo il cappellano del Beccaria, don Claudio Burgio, interroga con altrettanta prepotenza gli adulti educatori che non hanno capito cosa stesse accadendo nel caos in cui l’istituto penale minorile era precipitato da anni (e qui non è nemmeno necessario sottolineare le gravi responsabilità della politica e delle amministrazioni). Spiega Burgio: “Celle chiuse, spazi angusti, ambiente degradato, nessuna attenzione alla finalità costituzionale della rieducazione della pena”. E soprattutto, andando oltre al grave fatto di cronaca giudiziaria che ovviamente dovrà essere confermato nelle aule dei tribunali, “bisogna interrogarsi sulla violenza subita e agita da tanti ragazzi stranieri non accompagnati che vengono dalla strada, spesso rassegnati e assuefatti alla brutalità”, osserva don Burgio. “Quanto accade all’interno del sistema penale minorile è uno specchio dello smarrimento della società, dove disagio giovanile, devianze, adulti irresponsabili, mancanza di comunità e di educatori costituiscono una sfida educativa epocale per cui oggi ci vuole una vera vocazione”.

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Tutti si chiedono ora come sia stato possibile non aver capito quello che è emerso dall’indagine partita da una segnalazione del garante comunale dei detenuti, Francesco Maisto, che spiega al Foglio: “In un carcere minorile mi aspettavo ragazzi che giocano a calcio, partecipano ad attività ricreative nei laboratori, non silenzio e celle spesso chiuse”. E neanche quel dato, sottolineato dal garante: solo 11 condanne definitive su 71 minori presenti che significano una cosa sola: la maggior parte di loro non devono stare all’interno di un deteriorato sistema “dei delitti e delle pene”, ma nelle comunità per minori con adulti che si occupino di loro, che sappiano farli crescere. Il microcosmo del Beccaria – 26 italiani e 46 stranieri, di cui 32 giunti in Italia non accompagnati, ossia migranti che vengono dalla strada, e molti sono quelli con disturbi psichiatrici – rappresenta una sfida davvero titanica. Qual è la morale, se c’è una morale in questa brutta storia di un carcere minorile dove dopo 15 direzioni cambiate ora si cerca di invertire la rotta, con un direttore che sta cercando di farlo tornare a essere, ce lo auguriamo, un luogo forse, chissà, più rieducativo?

 

La morale è innanzitutto la necessità di non nascondere i problemi e di riflettere. Riprende il filo monsignor Delpini: “Quale scuola, quale casa, quale squadra di calcio si farebbe carico di ragazzi che sono trasgressivi e talvolta aggressivi? Si tratta di una sfida difficile, ma educare i giovani che sbagliano implica che ci sia qualcuno a spiegare loro cosa significhi costruire il bene. Non si può solo contenerli, ma si deve anche valorizzarli e guidarli. E questo ragionamento vale anche per i minori detenuti italiani. Dobbiamo accettare questa sfida che ci provoca e ci chiede di trovare soluzioni. Ci sono tante persone, uomini, preti ed educatori che hanno teso loro una mano, ma evidentemente non è sufficiente. Il bisogno di accompagnamento è superiore agli sforzi che la società riesce a offrire”.  Del resto l’arcivescovo Delpini durante un incontro promosso dall’unione dei giuristi cattolici aveva manifestato la necessità di una riforma della giustizia che tenesse in considerazione le esigenze delle persone. Ancora più urgente se si tratta di minorenni abbandonati a loro stessi. “La sfida educativa interroga anche i genitori di questi ragazzi, gli adulti che devono farsene carico. Abbiamo bisogno di adulti che facciano intravedere una promessa, una speranza nel futuro. Al disagio sociale dei minorenni, si deve rispondere con l’ascolto. Senza limitarci ad assisterli. Perciò dobbiamo impegnarci per trovare soluzioni alternative alla detenzione”. 

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