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Trovare alloggi a Milano è una guerra tra “vincitori e vinti”

Cristina Giudici

La pressione abitativa e il diritto alla casa che non c’è sono due temi centrali con forti implicazioni sociali. L'housing sociale non basta e le case popolari sono sempre meno e tutte occupate. Il turnover è ancora un tabù

La pressione abitativa e il diritto alla casa che non c’è (se non con affitti esorbitanti) è il grande tema della Milano che arranca. Un tema che si insinua in tutti i dibattiti, sia che si parli di politica, economia, ambiente o ancora di rigenerazione urbana. Lo si è visto anche alla kermesse “Italia Direzione nord” al Palazzo delle Stelline lunedì scorso, dove alla domanda “Milano è una città giusta?” le risposte di esponenti della classe dirigente meneghina hanno tradito un malcelato imbarazzo. Perché non basta dire che gli studenti potrebbero scegliere, come già fanno in molti, di vivere nei comuni della città metropolitana ben collegati a Milano.

La crisi abitativa comporta molte implicazioni sociali nella Milano post pandemica fra affitti proibitivi, il nodo mai sciolto delle case popolari e le periferie, eternamente presenti nel dibattito pubblico, ma come un puro pour parler. La soluzione è davvero l’edilizia sociale, che offre sì affitti calmierati ma solo a una piccola percentuale di residenti: con 6.000 appartamenti di cui tremila alloggi privati in affitto concordato, 2.500 creati da fondi immobiliari e cooperative, 500 comunali (o di enti con finalità se ne è parlato anche in un recente incontro dal titolo “Abitare a Milano - Problemi e prospettive”, organizzato da Milano solidale e dalla Lista Beppe Sala Sindaco nel municipio 8, a cui hanno partecipato sia l’assessore alla Casa, Pierfrancesco Maran, sia il suo predecessore Gabriele Rabaiotti, oggi capogruppo della lista Sala a Palazzo Marino. “Il 40 per delle nuove case a Milano sono in edilizia convenzionata. Un risultato straordinario”, ha osservato Maran. Bene ma non benissimo, come ha riconosciuto lo stesso assessore che ha parlato di “un sistema di vincitori e vinti”, dato che esiste un divario sempre più grave fra chi vive di rendite grazie agli affitti di case di proprietà e chi invece viene gradualmente espulso dalla città in base al censo perché costretto a pagare affitti insostenibili. “Un tema sociale enorme”, ha riconosciuto Maran. Anche perché le famiglie mononucleari ormai a Milano sono tantissime: 333 mila. Con Aler (Regione) che in vent’anni ha venduto il 30 per cento del suo patrimonio immobiliare mentre MM (Comune) naviga a vista. Con il 20 per cento di case sfitte e una piccola percentuale di housing sociale che non può essere la medicina di tutti i mali, manca una politica nazionale per il diritto alla casa.

Per Maran bisognerebbe guardare ai casi di successo come quello di Parigi dove si punta ad avere il 30 per cento di edilizia pubblica, già oggi arrivata al 25, senza aver inciso negativamente sulle dinamiche del mercato. O a Vienna, dove il 40 per cento dei cittadini vive in case di proprietà pubblica o di cooperative. Nel capoluogo lombardo invece solo il 17 per cento dei milanesi vive in un mercato protetto di edilizia sociale. Durante il dibattito “Abitare a Milano”, moderato dalla consigliera comunale Marzia Pontone e da Paolo Petracca delle Acli, è emerso un tema nel tema, che è ancora un tabù: lo scarso turnover nelle case popolari dove vive il 12 per cento dei milanesi e dove la permanenza degli affittuari dura in media 44 anni. Un tema che Gabriele Rabaiotti ha definito il “diritto all’uscita” dalle case popolari. “Si muove di più chi ha una casa in proprietà di chi vive in una casa del Comune”, ha detto fra le altre cose, Rabaiotti: ma “se nessuno esce, nessuno entra”. “L’accompagnamento all’uscita di chi non ha più i requisiti per restare in affitto negli alloggi popolari è una questione problematica, ma va affrontata”. Rabaiotti l’ha spiegata con una provocazione: “Se portate vostro figlio alla scuola materna e la trovate occupata da gruppi di anziani che giocano a burraco, non vi infuriate? Perché è questa la fotografia delle case popolari. Ci sono 2.500 famiglie che oggi potrebbero uscire e lasciare posto a famiglie giovani con figli che bussano alla porta e non riescono a entrare”. Un’uscita difficile da attuare per molte ragioni, fra cui il superamento dell’Isee di 35 mila euro previsto dalla normativa regionale. Se nessuno esce, nessuno entra. E se qualcuno esce bisogna potenziare la locazione creata da terzo settore, fondazioni, cooperative, Comune. Grazie a un virtuoso sodalizio pubblico-privato che però è ancora residuale. Ma il tema dell’accompagnamento fuori dalle case popolari (non si tratta di sfratti ma di mobilità consensuale) è necessario per avviare il turnover e offrire alloggi popolari alle famiglie più fragili. Un tabù da affrontare

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