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Il partito coalizione

Giorgio Tonini

Per rafforzarsi nel ruolo di partito non chiuso in se stesso, il Pd apra il suo contenitore ai Calenda d’Italia

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Sostiene il direttore di questo giornale che una convergenza del Pd sulla candidatura di Carlo Calenda a sindaco di Roma sarebbe cosa buona e giusta. Sono un romano emigrato da più di trent’anni in Trentino e non so dire se la scelta dell’ex-ministro e fondatore di Azione sia la mossa vincente per rianimare una Capitale agonizzante e rilanciare il suo ruolo nazionale e internazionale. Ma, per quel che valgono la mia opinione e la mia esperienza da una lontana provincia di confine, condivido appieno l’idea di Pd che sta alla base della proposta: una forza inclusiva, una “calamita” capace, con umiltà di cuore e apertura mentale, di attirare tutto il meglio della cultura riformista che può offrire il paese. “Chi non è contro di noi, è con noi”, dice il Vangelo di Marco, condannando integralismi e faziosità. Può darsi che sia un’idea nuova, certamente è l’idea originaria del Pd, ovviamente da declinare in un contesto assai diverso da quello del 2007: l’idea di un partito “plurale” per storie, tradizioni e culture politiche, capaci di incontrarsi in un nuovo riformismo; “di iscritti e di elettori”, dunque flessibile per forma organizzativa e confini di appartenenza; e “a vocazione maggioritaria”, quindi proteso a conquistare consensi ben oltre gli angusti confini di una formazione identitaria. Questa è del resto l’idea di Pd che è riemersa e si è dimostrata vincente in tanti territori nell’ultima tornata elettorale, regionale e amministrativa.

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Sostiene il direttore di questo giornale che una convergenza del Pd sulla candidatura di Carlo Calenda a sindaco di Roma sarebbe cosa buona e giusta. Sono un romano emigrato da più di trent’anni in Trentino e non so dire se la scelta dell’ex-ministro e fondatore di Azione sia la mossa vincente per rianimare una Capitale agonizzante e rilanciare il suo ruolo nazionale e internazionale. Ma, per quel che valgono la mia opinione e la mia esperienza da una lontana provincia di confine, condivido appieno l’idea di Pd che sta alla base della proposta: una forza inclusiva, una “calamita” capace, con umiltà di cuore e apertura mentale, di attirare tutto il meglio della cultura riformista che può offrire il paese. “Chi non è contro di noi, è con noi”, dice il Vangelo di Marco, condannando integralismi e faziosità. Può darsi che sia un’idea nuova, certamente è l’idea originaria del Pd, ovviamente da declinare in un contesto assai diverso da quello del 2007: l’idea di un partito “plurale” per storie, tradizioni e culture politiche, capaci di incontrarsi in un nuovo riformismo; “di iscritti e di elettori”, dunque flessibile per forma organizzativa e confini di appartenenza; e “a vocazione maggioritaria”, quindi proteso a conquistare consensi ben oltre gli angusti confini di una formazione identitaria. Questa è del resto l’idea di Pd che è riemersa e si è dimostrata vincente in tanti territori nell’ultima tornata elettorale, regionale e amministrativa.

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Due anni fa, sull’onda della vittoria alle elezioni politiche nazionali delle forze populiste e sovraniste e della conquista di Palazzo Chigi da parte dell’alleanza giallo-verde, la Lega di Salvini metteva fine all’anomalia trentina (e in parte altoatesina) che al governo delle due Province autonome e della Regione avevano sempre visto l’alleanza tra il centrosinistra e le forze autonomiste. La Lega entrava di forza anche nel “villaggio di Asterix”, conquistando la presidenza del Trentino e costringendo a Bolzano la Svp a scegliere come partner italiano, nel governo dell’autonomia provinciale, il partito di Salvini, anziché un Pd dimezzato dal voto. Due anni di governo dopo, la Lega era attesa alla prova delle amministrative in tutti i comuni delle due Province autonome. In particolare in Trentino si trattava di capire se il Carroccio era riuscito a mettere radici profonde nella società civile e nelle comunità locali, sul modello del Veneto di Zaia, o se restava un fenomeno esogeno, indotto dal vento nazionale, e occasionale, agevolato dalle divisioni nel campo del centrosinistra autonomista. La risposta delle urne non poteva essere più chiara. L’operazione leghizzazione (e venetizzazione) del Trentino è fallita. La Lega ha perso in quasi tutti i comuni maggiori, a cominciare da Trento e Rovereto, con la sola eccezione di Riva del Garda, dove il centrosinistra autonomista si presentava diviso. Ma non ha toccato palla neppure nei centri minori nelle valli e nei piccoli comuni di montagna, dove imperano le liste civiche, quasi mai riconducibili, neppure indirettamente, al partito di Salvini.

 

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Fallita la conquista dei comuni, anche in Trentino Salvini si è consolato commissariando la Lega, come ha anticipato per primo il Foglio di due giorni fa. Una mossa sconcertante, in una terra che ha sempre fatto della sua autonomia il tratto identitario fondamentale. Se la Lega ha perso e il centrosinistra autonomista ha vinto, è anche perché il Pd, superando tenaci resistenze e radicate diffidenze, ha riscoperto la sua natura di forza coalizionale, aperta e inclusiva. Nella terra di Alcide Degasperi, ha fatto suo, in una certa misura, il modello della Dc degasperiana, così affine al Pd originario: un partito non chiuso in se stesso, in una sterile e incomprensibile contesa spartitoria tra fazioni correntizie, ma aperto all’apporto di una più vasta area culturale, sociale e civile; un partito a vocazione maggioritaria e proprio per questo capace di costruire attorno a sé, in un rapporto di pari dignità con altre forze politiche, riformiste, popolari, autonomiste e civiche, una coalizione larga e forte, omogenea e coesa sul piano programmatico, tanto quanto flessibile nel presentarsi in forme diverse nei diversi territori, per assetti, rapporti di forza, personalità protagoniste. Naturalmente, presentarsi agli elettori come un partito-coalizione, a sua volta capace di dar vita ad una coalizione di partiti (“uniti per unire” si diceva ai tempi dell’Ulivo) in grado di proporre numerose variazioni sul tema, è sempre stato più facile sul terreno amministrativo, molto meno su quello politico. Tornare a vincere in Provincia e Regione, e a maggior ragione nel Paese, è tutto un altro paio di maniche. Proprio per questo, il passaggio intermedio del voto nelle grandi città può essere decisivo. E va affrontato dal Pd tenendo presente l’insegnamento di Barack Obama: non di rado, chi guida davvero, è chi si siede sul sedile posteriore.

 

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