Il procuratore del Piemonte e della Valle d'Aosta, Francesco Saluzzo (D), e il magistrato Paolo Borgna, illustrano l'operazione 'Geenna', nel 2019 a Torino (Ansa)

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Come ti lancio un'inchiesta. Tecniche di marketing giudiziario

Enrico Costa

Il nome a effetto, la conferenza stampa, i giornali e il frullatore della rete. Una trappola da cui è difficile liberarsi 

Geenna è il nome di un’inchiesta che scosse la Valle D’Aosta nel 2019. Come osservava la Stampa, “L’operazione ‘Geenna’ prende il nome dalla Bibbia e significa luogo di eterna dannazione: deriva da una valle alle porte di Gerusalemme che fu segnata di anatema dal re Giosia per essere divenuta sede del culto di Moloch, che imponeva la pratica di bruciare in olocausto i bimbi dopo averli sgozzati, diventando scarico dei rifiuti della città e luogo dove gettare le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti”. Appare evidente il parallelismo studiato con la morfologia della regione oggetto delle indagini. Marco Sorbara è il nome di un ex consigliere regionale della Valle D’Aosta, arrestato nell’inchiesta “Geenna”, che ha trascorso oltre 900 giorni in custodia cautelare prima di essere assolto in Appello perché il fatto non sussiste.

 

Non credo che per Sorbara sarà semplice scrollarsi di dosso quell’abbinamento. Un paio di giorni fa scorrevo un articolo di cronaca politica, e una persona citata era descritta unicamente per l’essere stata indagata e poi prosciolta nell’indagine Mafia Capitale. È la pura verità: ma una verità fangosa, che ti lascia appiccicata un’etichetta indelebile. Perché certe impronte restano impresse nella storia. E resistono alle assoluzioni e ai proscioglimenti. Una scelta accurata quella dei nomi assegnati alle indagini, brevi il giusto per i titoli dei giornali, ficcanti come lame, marchi indelebili su chi ne è coinvolto, assolto o condannato non importa. Chiunque si trovi sulla traiettoria del marketing giudiziario, perché di questo si tratta, è bollato per sempre. Perché il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali. Le sentenze? Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico.

 

Molte inchieste vengono rappresentate come fossero dei film. C’è un titolo, un trailer, una conferenza stampa nella quale si proiettano gli arresti, le perquisizioni, i pedinamenti, le intercettazioni anche vocali. Infine, c’è il botteghino di questo capolavoro che è la rete. Eppure si tratta un film in cui parla solo la campana dell’accusa, la difesa non viene citata nemmeno nei titoli di coda. Ma va sottolineato anche che buona parte dei pm lavora silenziosamente, e soffre la spettacolarizzazione che fanno pochi, ma rumorosi colleghi (che poi magari si buttano in politica). Pare addirittura che una forza di polizia disponga di un ufficio centrale al quale sono indirizzate le proposte di denominazione: il via libera è concesso previa verifica che non ci siano altre inchieste con lo stesso nome. Un’altra forza di polizia richiede alle proprie articolazioni territoriali di sfornare comunicati stampa periodici, per dimostrare l’incessante lavoro. Pazienza se non c’è niente da comunicare, l’importante è comunicarlo bene.

 

Le cronache ci danno un riscontro quotidiano della fantasia a senso unico nel battezzare i fascicoli. Dall’operazione Waterloo a quella Petrolmafie, piuttosto che Evasione continua, Metastasi, Farmabusiness, Crimine, Pelli Sporche, Appaltopoli, Università Bandita, Sotto Scacco, Conte Ugolino, Sistemi criminali, Ecoboss, Falsa politica sono inchieste che finiscono con condanne, ma talvolta anche assoluzioni o proscioglimenti prima del processo. E uno stato di diritto deve pensare a chi, innocente, finisce in questo ingranaggio. Il marketing giudiziario è quanto di più pericoloso, incivile, illiberale, arbitrario. Soprattutto perché è studiato per far conoscere e apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa. Un prodotto – per quanto per quanto modificabile e smentibile – presentato all’opinione pubblica come oro colato. Una forma di condizionamento dell’opinione pubblica, ma anche del giudice, raggiunto da una gragnuola di frammenti di informazione proveniente solo da una parte.

 

I media, sempre pronti a evocare il rischio bavaglio a chi invoca la presunzione d’innocenza, assorbono e trasmettono acriticamente: un’inchiesta viene battezzata con un nome a effetto? Tutti a riportare alla lettera. Senza domandarsi chi ha scelto quel nome, perché lo ha scelto, se ne aveva titolo. Domandiamoci. Con quale spirito critico molti giornalisti seguono le indagini e assorbono le informazioni trasmesse dagli inquirenti? L’interesse immediato non è quello di approfondire, ma di pubblicare al più presto. Nome dell’inchiesta prima di tutto. E a seguire l’impostazione accusatoria, visto che in quella fase la difesa ancora non è pervenuta. Sarebbe questa la massima espressione del diritto di cronaca-dovere di informare? Recepire e basta? Scordarsi che dopo le inchieste ci sono i processi? Spegnere il rubinetto delle notizie quando finalmente si apre il dibattimento? La vera sentenza per molti giornalisti è la conferenza stampa della Procura, perché la sentenza vera, quella pronunciata dopo il processo, non interessa più a nessuno.

 

Perché le indagini sono presentate come un processo-inverso: si parte dalla sentenza-conferenza stampa, la si pubblica, la si scolpisce nell’opinione pubblica, poi forse – quando avrà letto gli atti – la difesa potrà controbattere. E potrà farlo in un processo a questo punto senza riflettori, senza titoli, senza interesse. Ecco perché mi sono battuto per recepire la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza, ecco perché ho presentato l’emendamento, accolto, sul diritto all’oblio per gli assolti, ecco perché ho proposto che fosse lo stato a contribuire alle spese legali degli innocenti. Perché uno stato di diritto deve essere attento, quando immerge una persona nell’ingranaggio della giustizia, a garantire che ne esca, se innocente, nelle stesse condizioni di reputazione e immagine di cui godeva in precedenza.

Enrico Costa, deputato di Azione, già viceministro della Giustizia

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