Enrico Costa, deputato di Azione (LaPresse)

La lettera

Milano, la procura e il processo che manca sullo strapotere dei pm

Enrico Costa

I magistrati possono accelerare e rallentare i processi, depositare o tenere nel cassetto. Sono loro a chiedere misure o intercettazioni, e possono parlare con la stampa o restare silenti. Chi controlla chi?

Al direttore - La Procura di Milano ha cambiato il corso della storia politica del nostro Paese; ora, probabilmente, con le sue vicende contribuirà a cambiare la storia della magistratura. Mi si obietterà che non è così. Che le questioni del Csm - la cui sezione disciplinare si riunirà oggi per decidere in camera di consiglio cosa fare rispetto alla richiesta della procura generale della Cassazione relativa al trasferimento d’urgenza e al cambio di funzioni per il pm milanese Paolo Storari - da almeno un paio d’anni sono all’onore delle cronache e che i riflettori sulla magistratura sono puntati da tempo. È vero. Ma a Milano avviene qualcosa di nuovo, di diverso, e, se possibile, più preoccupante. Perché per la prima volta non si parla di influenze su nomine, accordi per le promozioni, vicende relative al Csm.

 

Qui si parla di procedimenti e processi. Il dibattito, anche acceso, sulle toghe si è concentrato sulle degenerazioni correntizie: solo marginalmente sul dubbio che il corso dei procedimenti potesse essere rallentato, o accelerato o impantanato. A Milano emergono invece temi inediti: interrogativi sono d’obbligo, ma è evidente il cambio marcia che si inaugura nel dibattito sulla giustizia. Ieri si parlava di promozioni, oggi di processi. E questa nuova prospettiva – al netto di quello che verrà accertato – tocca il punto nevralgico delle funzioni stesse degli organi dell’accusa. E ne fanno emergere l’assoluto stra-potere. Possono fare e disfare, possono accelerare e rallentare, possono depositare o tenere nel cassetto, possono scegliere se iscrivere o no, possono chiedere misure o intercettazioni, possono parlare con la stampa o restare silenti. Chi controlla chi? Ed è legittimo chiedersi se e quante volte può essere accaduto (magari in realtà minori), nel disinteresse generale, che un’indagine si sia impantanata, o le prove a favore della difesa trascurate per non indebolire l’accusa.

 

Nel nostro paese il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale è una finzione. Ogni anno decine di migliaia di fascicoli si prescrivono durante le indagini preliminari: nessuno ne risponde. E nessuno si chiede quale sia il criterio di selezione tra i fascicoli che devono avere impulso e quelli che restano fermi. Lo stesso vale per le decisioni di citare a giudizio o di richiedere il rinvio a giudizio. A processo non si deve mandare una persona per “vedere le carte” sulla base di accuse traballanti, perché il processo è di per se una pena. Chi ci finisce dentro, pur assolto (e gli assolti sono 120mila l’anno), non è più la stessa persona.

 

Purtroppo il nostro Paese non garantisce che l’assolto sia la stessa persona – quanto a immagine, credibilità, reputazione – che è entrata nell’ingranaggio della Giustizia. Se entri nell’ingranaggio ti immergi in un fango dal quale, se ne esci innocente, il nostro sistema non fa nulla per risciacquarti. Ecco perché leggere le cronache delle polemiche interne alle Procure crea grande preoccupazione: perché trasmette il dubbio – al di là di chi ha torto o ragione – che questo stra-potere non sia utilizzato bene. Ed un potere di vita o di morte che non può avere sacche di arbitrio.

 

Enrico Costa, deputato di Azione

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