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Verità sui pm forcaioli

Le motivazioni della sentenza Eni-Shell sono un guaio serio De Pasquale e Spadaro

Ermes Antonucci

La debolezza del teorema dei pm contro Eni emerge dalle motivazioni depositate dai giudici. Sollecitare velocità nell'acquisto della concessione petrolifera non significa affrettare un accordo corruttivo

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Nelle motivazioni, depositate mercoledì, della sentenza con cui il tribunale di Milano ha assolto lo scorso marzo tutti gli imputati del processo Eni-Shell, incentrato sulla presunta corruzione per l’acquisto del giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria, non ci sono soltanto dure critiche dei giudici nei confronti della decisione dei pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro di non depositare nel corso del dibattimento alcuni atti favorevoli agli imputati (fatti per i quali i due magistrati risultano ora indagati dalla procura di Brescia con l’ipotesi di rifiuto di atti d’ufficio).

 

La sentenza contiene altri passaggi importanti, completamente ignorati dagli organi di informazione, ma che invece meriterebbero un po’ di attenzione. In queste poche righe, infatti, il collegio giudicante presieduto da Marco Tremolada condanna senza appello la logica giustizialista che sembra aver ispirato i pm nel muovere le accuse contro Claudio Descalzi, Paolo Scaroni e gli altri imputati, ricordando agli inquirenti milanesi (e non solo) due princìpi fondamentali su cui dovrebbe basarsi la giustizia in un paese civile. Primo: per condannare le persone occorrono prove. Secondo, e corollario del primo: no, i politici non sono – secondo una logica davighiana – tutti corrotti non ancora scoperti. L’affermazione del primo principio, per quanto paradossale, non sorprende. Erano stati gli stessi pubblici ministeri nella loro requisitoria a chiedere di condannare gli imputati specificando di non essere in grado di fornire alcuna prova sostanziale dell’accordo corruttivo, ma di poter offrire soltanto una “prova indiziaria”. Su questo i giudici ricordano una particolare affermazione resa dal pm De Pasquale il 21 luglio 2020: “Non chiedeteci una probatio diabolica. Chiedeteci una prova che sia congrua rispetto a quello che dicono le convenzioni internazionali, cioè che bisogna utilizzare anche gli indizi, bisogna utilizzare tutto ciò che si conosce, non bisogna cercare banalmente, come se fosse la serie televisiva, la pistola fumante”. 

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Per giustificare questa posizione, il pm sottolineò le difficoltà nel reperire le prove in paesi stranieri, soprattutto attorno a un caso di “grande corruzione” che coinvolgeva pubblici ufficiali ai massimi livelli. Una tesi che i giudici nelle motivazioni definiscono “non condivisibile”, ricordando il “doveroso principio che colloca l’onere della prova a carico dell’accusa”. In altre parole, “non è condivisibile che si possa derogare ai princìpi normativi esplicitamente costituzionalizzati solo perché si verte nell’ipotesi di grandi corruzioni internazionali”. Tradotto: non si possono accusare delle persone di corruzione internazionale senza poi fornire prove, sostenendo che queste sono difficili da raccogliere per la distanza dal paese straniero. Per illustrare la particolare tesi dell’accusa, i giudici citano in una nota anche un’altra affermazione fatta da De Pasquale in udienza il 3 febbraio 2021, dalla quale emerge una visione ancor più singolare della corruzione politica. Nell’agosto 2010 i vertici dell’Eni incontrarono l’allora presidente nigeriano Goodluck Jonathan per negoziare l’acquisto della concessione petrolifera. Secondo un resoconto recuperato dagli inquirenti, in quell’occasione il presidente nigeriano avrebbe detto “che vuole vedere questa cosa risolta ASAP (il prima possibile, ndr). Vuole la produzione”. Secondo i pm, però, dietro l’auspicio del presidente nigeriano di far partire quanto prima la produzione di petrolio si nasconderebbe in realtà una conferma dell’accordo corruttivo.

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Questa la tesi espressa da De Pasquale: “Da politico Jonathan non dice certamente voglio i soldi, voglio che date i soldi a Etete al più presto perché ho delle aspettative. Da politico dice quello che hanno sempre detto i politici ‘Ah, voglio l’opera realizzata’, ‘Ah, questa cosa è molto importante per lo sviluppo del mezzogiorno’, ‘Ah, questa è un’infrastruttura fondamentale per il nostro paese’. Dicono queste cose i politici, poi alcune volte il discorso si ferma là, in qualche caso purtroppo questo è un abbellimento retorico e la realtà è: ‘Vuole che tutto sia fatto a breve perché vuole contributi politici’. Finisco sul punto però perché questa che sto dicendo è comunque un’inferenza, un’inferenza testuale. Noi da questo testo deduciamo che il discorso del presidente abbia rafforzato l’opinione che bisogna pagare soldi a titolo di corruzione”. Insomma, per i pm se un politico afferma che bisogna fare in fretta ad avviare la realizzazione di un’opera in realtà sta chiedendo tangenti. Una delle ragioni principali del fallimento del processo sulla presunta corruzione internazionale più grande della storia, probabilmente, è proprio qui. 

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