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venticinque anni dopo

La gioia del boia

Riccardo Lo Verso

Ordinò di uccidere il piccolo Di Matteo ed è l’emblema del pentitismo a rate e delle mezze verità. Giovanni Brusca quest’anno tornerà libero

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Venticinque anni fa la mafia uccideva il piccolo Giuseppe Di Matteo. Era il 1996. Volevano zittire il padre Santino, divenuto collaboratore di giustizia, e se la presero con un bambino. Entro la fine del 2021, dopo venticinque anni di carcere, Giovanni Brusca finirà di scontare la pena. Colui che diede l’ordine di uccidere Giuseppe, dopo 779 giorni di prigionia, sarà di nuovo libero. Chissà se per la numerologia il 25 ha un significato particolare. Per chi ha amato Giuseppe gli anni passano, uno dopo l’altro, tutti uguali, tutti con lo stesso vuoto. Per Brusca, invece, l’anno appena iniziato segnerà l’inizio di una nuova vita fuori dal carcere.

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Venticinque anni fa la mafia uccideva il piccolo Giuseppe Di Matteo. Era il 1996. Volevano zittire il padre Santino, divenuto collaboratore di giustizia, e se la presero con un bambino. Entro la fine del 2021, dopo venticinque anni di carcere, Giovanni Brusca finirà di scontare la pena. Colui che diede l’ordine di uccidere Giuseppe, dopo 779 giorni di prigionia, sarà di nuovo libero. Chissà se per la numerologia il 25 ha un significato particolare. Per chi ha amato Giuseppe gli anni passano, uno dopo l’altro, tutti uguali, tutti con lo stesso vuoto. Per Brusca, invece, l’anno appena iniziato segnerà l’inizio di una nuova vita fuori dal carcere.

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“Allibertativi du cagnuleddu” (liberatevi del cagnolino), disse il capomafia di San Giuseppe Jato. Suo fratello Enzo Salvatore teneva il ragazzino per le braccia, Giuseppe Monticciolo per le gambe, Vincenzo Chiodo lo strangolò. Il corpo di Giuseppe fu sciolto nell’acido. Otto giorni dopo avrebbe compiuto 15 anni. Il pensiero che un criminale del livello di Brusca possa andarsene in giro provoca il voltastomaco, ma erano le regole di ingaggio di uno stato che pur di sconfiggere l’orda barbarica di Cosa nostra ha deciso che venticinque anni di carcere (in realtà erano trenta, ma c’è la buona condotta) potessero bastare a saldare il conto con la giustizia.

 

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Non resta che aggrapparsi alla speranza che la sua scarcerazione coincida almeno con la fine del tortuoso percorso collaborativo di Brusca, visto che una parte della magistratura ha abdicato al ruolo di osservatore critico. Come se le bugie e i silenzi dei pentiti fossero una ragione di stato, un boccone amaro ma inevitabile da mandare giù. I pentiti, Brusca come altri, hanno finito per condurre il gioco, sfruttando le larghissime maglie di una giustizia permissiva. Un equilibrista ondivago, ecco chi è stato in tutti questi anni il killer tanto caro all’antimafia che non ricorda il numero esatto delle persone che ha ammazzato. L’uomo che ha azionato il telecomando nella strage di Capaci, anche di questo si è reso responsabile, è il simbolo di una lunga stagione giudiziaria. Coccolato da uno stato che è stato fin troppo magnanimo con lui, Brusca è l’emblema del pentitismo a rate, delle cose dette e non dette, delle mezze verità, delle allusioni, dei lampi di memoria arrivati in soccorso di tutti i teoremi. Di cose vere ne ha raccontate, tante e importanti. Nessuno vuole negarlo, ma gli atti giudiziari sono zeppi delle acrobazie di un pentito pronto a raccontare ciò che altri speravano di sentirsi dire. Tra un resoconto e l’altro Brusca si è risparmiato la condanna all’ergastolo e ha goduto di decine e decine di permessi premio, compresi quelli per festeggiare il Capodanno a casa con i parenti.

 

A un certo punto Brusca ha deciso di iscriversi al partito della Trattativa. Era il 2012 e il suo interrogatorio reso al pubblico ministero Antonio Ingroia divenne il suo marchio di fabbrica. Aveva chiesto di essere interrogato nell’ambito di un’inchiesta per un’estorsione che avrebbe commesso mentre era in carcere. Il tentativo maldestro di difendere la roba che aveva lasciato fuori sfociò in un processo, concluso in parte con la prescrizione e in parte con un’assoluzione. Eppure, una volta seduto davanti al pm, Brusca disse che non era pronto per parlare della vicenda. Pronto, anzi prontissimo, lo era invece per raccontare un’altra storia che gli toglieva il sonno. “Ci ho pensato tanto, prima di dire questa cosa. Proprio ci ho pensato, ripensato, è giusto, non è giusto, è giusto, non è giusto…”. E tirò fuori il nome dell’allora senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, come pedina del patto fra mafiosi, carabinieri e politici durante la stagione delle stragi.

 

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Perché parlarne dopo tanti anni? Accampò una scusa risibile. Disse che ne aveva già discusso due anni prima con il cognato durante una conversazione intercettata. Solo che dell’intercettazione non c’era e non c’è traccia. Brusca si arrampicò sugli specchi. Spiegò che con il cognato, “appassionato di criminologia e che legge i giornali”, c’era “un’intesa tale che lui capiva al volo quello che volevo dire”. Sedici anni dopo l’inizio della sua collaborazione, Brusca decise che bisognava alzare il tiro per ritagliarsi un ruolo da protagonista negli anni a venire, calcando ogni palcoscenico processuale e aggiungendo una cosa oggi e un’altra domani. Come la storia del papello, il documento con la lista delle richieste che i corleonesi avrebbero avanzato allo stato per fermare le stragi.

 

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Il carnefice di San Giuseppe Jato fu chiamato in soccorso di un altro campione delle patacche che porta il nome di Massimo Ciancimino. Il figlio dell’ex sindaco di Palermo aveva taroccato con il photoshop il presunto papello, aggiungendo il nome dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Quando si intuì che la sua credibilità non era più spendibile ecco tornare di moda la carta Brusca, il quale disse che il destinatario delle richieste dei mafiosi era stato il ministro dell’Interno Nicola Mancino. Già, Mancino tenuto anch’egli a lungo sulla graticola giudiziaria sulla base di una ricostruzione farlocca. Nel processo al generale dei carabinieri Mario Mori, nel quale l’ufficiale condannato in primo grado per la Trattativa è stato assolto per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, Brusca fece confusione con le date. All’inizio disse che Totò Riina gli parlò del papello dopo la strage di via D’Amelio. Poi cambiò idea e chiese di essere riconvocato. Si era ricordato di avere appreso del papello a cavallo delle stragi, quindi dopo Capaci e prima di via D’Amelio. Che, guarda caso, è il canovaccio della pubblica accusa che vede nella Trattativa il motivo dell’accelerazione della strage in cui furono trucidati Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. “Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, ammise lo smemorato Brusca, che ha taciuto per decenni ciò che sostiene di conoscere su Calogero Mannino, il politico democristiano la cui assoluzione definitiva dall’accusa di avere dato avvio alla Trattativa taglia alla radice la ricostruzione dei pubblici ministeri. 

 

A un certo punto a Brusca sovvenne il ricordo che Riina voleva ammazzare Mannino “perché una volta non si mise a disposizione per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del capitano Basile”. Per la cronaca, il processo non fu aggiustato. A chi gli fece notare l’inaccettabile dimenticanza si giustificò con un candore che non si addice a un carnefice, sostenendo che fosse “un mio difetto, molte volte cose che io non ho vissuto in prima persona le do per non importanti. Poi, quando arrivano alla mente, le racconto senza nessuna riserva”. Non era importante ricordare che un ministro della Repubblica traccheggiava con i giudici per aggiustare i processi dei mafiosi. Che strana scala dei valori. Fatto sta che Brusca non ne parlò al processo in cui Mannino è stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Le cose cambiarono nel palcoscenico del processo sulla Trattativa. Qui sì che il ricordo sul Mannino aggiustatore di processi divenne nitido per Brusca.

 

In Corte di assise di appello, dove si sta svolgendo il processo di secondo grado, il presidente Angelo Pellino gli ha fatto notare che “in particolare nel processo Mannino quando le è stato chiesto se fosse a conoscenza di interventi specifici, di iniziative, di favori fatti dall’onorevole Mannino a vantaggio di Cosa Nostra, lei ha detto che non le risultava nulla di specifico, del nome di Mannino assolutamente non c’è traccia in questo racconto”. Ricordo tardivo ammise Brusca, ma “non successivamente suggestionato, assolutamente no”. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Nessuno, o quasi, per decenni gli ha contestato i ricordi fuori tempo massimo. Lo hanno fatto due magistrati. Per rafforzare la nuova collocazione temporale delle sue conoscenze sul papello Brusca citava alcune riunioni di mafia.

 

Mario Fontana perse la pazienza in aula e nella motivazione delle sentenza con cui mandò assolto Mario Mori per il mancato arresto di Bernardo Provenzano parlò di “oscillazioni che suggeriscono una certa improvvisazione e mettono in seria crisi la possibilità di fare pieno affidamento sulle indicazioni di dettaglio da lui fornite”. Non si poteva escludere una “possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza”. Insomma, Brusca poteva avere voluto compiacere chi lo interrogava. Dopo Fontana un altro magistrato decise che era giunto il momento di lasciare traccia scritta delle anomalie del percorso dichiarativo di Brusca. È stato il giudice Marina Pitruzzella che ha assolto Mannino in primo grado nel processo stralcio sulla Trattativa, quello definito in Cassazione. Una sentenza in cui Pitruzzella criticava il modello investigativo dei pubblici ministeri che attribuivano alle “congetture” dei pentiti la valenza e la forza dei fatti. Le interpretazioni di Giovanni Brusca sarebbero state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni”.

 

Il giudice riportava tutte le domande di Antonio Ingroia e degli altri magistrati del pool e le risposte di Brusca che a un certo punto iniziò “ad arricchire i suoi resoconti di elementi eclatanti, congetture e sintesi, anche confuse e di difficile comprensione, anche per gli stessi inquirenti che lo interrogavano”. Colpa “dell’eccesso di interrogatori”, nel corso dei quali Brusca “subì un martellamento, sempre sugli stessi episodi” e i rappresentanti dell’accusa hanno finito per attribuirgli “cognizioni di fatti, facoltà interpretative e ricostruttive che all’atto pratico il collaboratore ha mostrato di non possedere”. Quello di Brusca è stato un crescendo. Spuntava un particolare inedito a ogni incontro. La sua era una fiamma sempre accesa che andava alimentata. D’altra parte Salvatore Cancemi, il primo componente della Commissione di Cosa nostra a pentirsi, la lezione l’aveva impartita due decenni prima: “La mia mente è come una vite arrugginita che si svita lentamente”, diceva. Sì, ma quanto lentamente.

 

A volte serve una vita intera. Brusca ha giustificato la sua reticenza ora con la paura di essere delegittimato, ora con la voglia di tenersi al riparo delle polemiche o addirittura per ragioni di incomprensibile opportunità. Opportuno sarebbe stato ricordargli che si era risparmiato il carcere a vita a patto di raccontare tutto e subito. E che i premi così come si concedono, si possono anche ritirare. È’ andata diversamente, sia con Brusca che con altri pentiti quali Carmelo D’Amico, Nino Lo Giudice, Consolato Villani, Pietro Riggio. Sono stati questi ultimi a raccontare, a distanza di anni dall’inizio della loro collaborazione, chi ha organizzato le stragi, chi ha ucciso l’agente Nino Agostino e la moglie Ida Castelluccio, a tirare in ballo i servizi segreti, a smontare verità finora raggiunte spingendosi a sostenere che Brusca credeva di avere pigiato il telecomando che fece saltare in aria corpi e strada a Capaci, ma in realtà è stato qualcun altro. Qualche anno fa Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso, mostrò inquietudine di fronte alle parole di Ingroia, il quale disse in un’intervista che Brusca non aveva raccontato tutta la verità.

 

Circostanza che non ha impedito alla magistratura, in particolare alla Direzione nazionale antimafia, di dare parere favorevole alla scarcerazione anticipata di Brusca, la cui richiesta fu poi respinta dalla Cassazione, perché meritevole di un ulteriore premio. Il pentito era ed è una pedina irrinunciabile come dimostrò l’estremo tentativo della Procura generale di Palermo di fare condannare Mannino. L’ufficio diretto da Roberto Scarpinato sollevò un conflitto di costituzionalità. Protestava per la “mancata convocazione di Giovanni Brusca per chiarire un passaggio delle sue dichiarazioni rese in aula nel maggio 2018”. Allora il boia di San Giuseppe Jato riferì di non avere saputo da Riina perché volesse uccidere Mannino. “Era in contrasto o non aveva mantenuto l’impegno, questo non glielo so dire”, spiegò Brusca, ammettendo di non sapere.

 

Non poteva bastare, Brusca andava riconvocato, ancora una volta, affinché aggiornasse i suoi ricordi traballanti che vanno avanti da un quarto di secolo. Con una simile gestione dei pentiti i processi diventano eterni. L’obiettivo è fare espiare le pene agli imputati prima ancora di essere condannati. Chiedetelo a Mannino, che ha vissuto una fetta della sua vita da imputato, stritolato dal modo di condurre i processi e dalla sospensione della prescrizione sine die quando c’è di mezzo la mafia. Un modello tanto caro al ministro (ex) Alfonso Bonafede che ha teorizzato il blocco della prescrizione e l’ha messo in pratica nella dilagante e manettara convinzione che i processi durino troppo sempre solo per colpa degli imputati e degli avvocati.

 

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