PUBBLICITÁ

Le motivazioni della sentenza

Borsellino non fu ucciso perché c'era una trattativa fra la mafia e lo Stato

Riccardo Lo Verso

I giudici del processo d'appello di Caltanissetta smontano la ricostruzione che continua a fare breccia in tv e nei libri: “Non sussiste alcuna prova" che collega i rapporti tra politica e mafiosi con la strage di Via D’Amelio

PUBBLICITÁ

Paolo Borsellino non fu ucciso perché c'era una trattativa fra la mafia e lo Stato. Non lo dicono i nemici della verità, ma i giudici. Per ultimi quelli che hanno scritto le motivazioni al processo di appello Borsellino quater, celebrato a Caltanissetta, e depositate ieri. “Abbiamo la certezza che la trattativa ci fu”, dissero nel 2018 i pm di primo grado Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, piantando la bandierina delle condanne pesantissime inflitte nel processo principale in corte di assise a Palermo. Antonio Ingroia, che già era andato via ma che del processo rivendicava la paternità, si spinse oltre: “Da oggi finalmente si può, e anzi si deve, togliere l'aggettivo ‘presunta’ accanto alla parola ‘trattativa’”. Come se il garantismo fosse una banale questione linguistica. Da allora la sentenza è un santino che si tira fuori ad ogni obiezione, ad ogni critica, ad ogni tentativo di dissentire dalla narrazione comune sulla stagione delle stragi. Ci si arrocca su una posizione che tanto piace, ma che processualmente è rimasta isolata o quasi.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Paolo Borsellino non fu ucciso perché c'era una trattativa fra la mafia e lo Stato. Non lo dicono i nemici della verità, ma i giudici. Per ultimi quelli che hanno scritto le motivazioni al processo di appello Borsellino quater, celebrato a Caltanissetta, e depositate ieri. “Abbiamo la certezza che la trattativa ci fu”, dissero nel 2018 i pm di primo grado Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, piantando la bandierina delle condanne pesantissime inflitte nel processo principale in corte di assise a Palermo. Antonio Ingroia, che già era andato via ma che del processo rivendicava la paternità, si spinse oltre: “Da oggi finalmente si può, e anzi si deve, togliere l'aggettivo ‘presunta’ accanto alla parola ‘trattativa’”. Come se il garantismo fosse una banale questione linguistica. Da allora la sentenza è un santino che si tira fuori ad ogni obiezione, ad ogni critica, ad ogni tentativo di dissentire dalla narrazione comune sulla stagione delle stragi. Ci si arrocca su una posizione che tanto piace, ma che processualmente è rimasta isolata o quasi.

PUBBLICITÁ

 


È per via giudiziaria, infatti, che la teoria della trattativa è crollata a pezzi. La sentenza del Borsellino quater, che ha confermato la condanna all'ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e la condanna dei “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, è tranciante: “Non sussiste alcuna prova che consente di collegare la trattativa Stato-mafia con la deliberazione della strage di Via D’Amelio”. In un altro momento storico sarebbero state parole dirompenti. Non ora, però. Non è la prima volta, infatti, che i giudici smontano la ricostruzione che continua a fare breccia in tv, nelle fiction o nei libri. Nelle motivazioni di Palermo, quelle del processo principale, si è sostenuto che Borsellino fu ucciso perché aveva scoperto che qualcuno traccheggiava con il diavolo. Fu “un segnale” di debolezza delle istituzioni” che Riina decise di sfruttare accelerando il piano di morte di via D'Amelio. “Ed allora è giocoforza ritenere – si leggeva nella motivazione del collegio presieduto da Alfredo Montalto – che l'unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l'organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo”. Come prova dell'esistenza della trattativa si usava la trattativa stessa.

 

PUBBLICITÁ


Ed invece al Borsellino quater di Caltanissetta, sia in primo che in secondo grado, i giudici hanno scritto che i mafiosi misero in pratica i “propositi vendicativi” che covavano sin dagli anni Ottanta. Ce l'avevano a morte con Borsellino per la sentenza del maxi processo, perché voleva proseguire il lavoro di Giovanni Falcone e si era messo in testa di sviluppare l'indagine su mafia e appalti. Un progetto, quest'ultimo, che si stava concretizzando come dimostra l'incontro che Borsellino ebbe con Mori Mori e Giuseppe De Donno il 25 giugno 1992 presso la caserma dei carabinieri Carini di Palermo. Per indagare erano stati scelti i due ufficiali perché di loro Borsellino si fidava, ma gli stessi ufficiali sono stati condannati in primo grado a pene pesantissime perché avrebbero trattato con la mafia.

 

La parola trattativa evoca nefandezze. Marina Petruzzella, il giudice che assolse Calogero Mannino in primo grado, spazzò via le suggestioni. La finalità di quel dialogo era “esclusivamente quella di cercare un modo per catturare i latitanti di Cosa nostra più pericolosi e di porre rimedio al rischio della prosecuzione dell’attacco stragista”. I giudici di appello che hanno confermato l'assoluzione dell'ex ministro, tacciato a lungo di avere dato il via al patto sporco per evitare di essere ammazzato, hanno stabilito l'iniziativa degli ufficiali del Ros in effetti ci fu, ma l'hanno considerata un'operazione info-investigativa di polizia giudiziaria, peraltro comunicata ai superiori. Bene fanno i giudici di appello del Borsellino quater ad evidenziare i tanti buchi neri che restano tali e impediscono di trovare la verità sull'eccidio di via D'Amelio. Il punto è che forse la verità andava cercata in altro modo.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ