PUBBLICITÁ

Pataccari che ci riprovano

Riccardo Lo Verso

Trattori, targhe e boss che non lo erano. Il nuovo capitolo del romanzo criminale sulla trattativa stato-mafia. Tra aule e tv. Protagonista: Pietro Riggio, “il nuovo Buscetta”

PUBBLICITÁ

L’ultima patacca ha i numeri di una targa. Se li ricorda bene il pentito nisseno Pietro Riggio che li annotò il giorno in cui vide arrivare a bordo di una Bmw l’ex poliziotto Giovanni Peluso a cui il collaboratore di giustizia attribuisce l’inaspettato ruolo di attentatore nella strage di Capaci. Ed invece la targa appartiene a un trattore. Altro che macchina, fine della storia. Che figuraccia, l’ennesima, per il collaboratore di giustizia al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia. Il racconto di Riggio naufraga. Si inceppa uno degli ultimi attrezzi di scena con cui si tenta di rimescolare le carte in un processo segnato irrimediabilmente, nel presente e nel futuro, dall’assoluzione definitiva di Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano non è stato colui che diede avvio al patto fra mafiosi e rappresentanti delle istituzioni. Il motore della trattativa non si è acceso. Mai.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


L’ultima patacca ha i numeri di una targa. Se li ricorda bene il pentito nisseno Pietro Riggio che li annotò il giorno in cui vide arrivare a bordo di una Bmw l’ex poliziotto Giovanni Peluso a cui il collaboratore di giustizia attribuisce l’inaspettato ruolo di attentatore nella strage di Capaci. Ed invece la targa appartiene a un trattore. Altro che macchina, fine della storia. Che figuraccia, l’ennesima, per il collaboratore di giustizia al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia. Il racconto di Riggio naufraga. Si inceppa uno degli ultimi attrezzi di scena con cui si tenta di rimescolare le carte in un processo segnato irrimediabilmente, nel presente e nel futuro, dall’assoluzione definitiva di Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano non è stato colui che diede avvio al patto fra mafiosi e rappresentanti delle istituzioni. Il motore della trattativa non si è acceso. Mai.

PUBBLICITÁ

    

 

Da anni la ricostruzione dei pubblici ministeri di Palermo, e non solo, si sviluppa seguendo due traiettorie parallele. Di mattina nelle aule dei tribunali, di sera nei talk show televisivi e negli approfondimenti giornalistici. L’ultimo lo ha confezionato lunedì “Report”. Un lavoro come sempre ben fatto, che però porta sul palcoscenico di Rai 3, sempre e solo, voci note. Innanzitutto quelle dei magistrati, da Antonino Di Matteo a Roberto Scarpinato, passando per Roberto Tartaglia, oggi al Dap, che da anni rappresentano la pubblica accusa nei processi. E in quanto parte processuale offrono una chiave di lettura univoca. Non si coltiva il dubbio, specie quando ci si confronta con i pentiti smemorati. A “Report” è (ri)spuntato, in carne e ossa, Salvatore Baiardo, gelataio di Omegna che ospitò i fratelli Graviano, boss stragisti del rione palermitano Brancaccio. Baiardo, oggi uomo libero, ripete le cose già dette sui rapporti fra Silvio Berlusconi e i boss, torna a parlare della storia dei miliardi della mafia investiti grazie al Cavaliere, su cui si indaga da decenni. Aggiunge la nota sulla vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa berlusconiana e, soprattutto, sostiene che ci siano più agende rosse di Paolo Borsellino, in mano a chi ha ancora le chiavi del ricatto allo Stato tre decenni dopo le stragi.

PUBBLICITÁ

 

Su Baiardo in passato si è già indagato: quando disse ai carabinieri di essere pronto a collaborare ma chiedeva soldi, tanti soldi, in cambio. Le sue informazioni, però, furono bollate dagli investigatori come “del tutto inattendibili”. Allora non valevano un solo euro dell’investimento che richiedeva, ma nella narrazione odierna che postula l’esistenza della “trattativa” non c’è spazio per i tentennamenti. Per gli adepti della confraternita della trattativa Baiardo è il nuovo depositario dei segreti.  Un tempo l’attrezzo di scena era Massimo Ciancimino, la cui credibilità è stata smontata persino dai giudici del processo celebrato in ordinario (Mannino aveva scelto l’abbreviato), che in primo grado si è chiuso con pesantissime condanne. Sul figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo non c’è altro da aggiungere. La sua storia parla da sé. I magistrati ci hanno messo la faccia per difenderlo in lunghe, lunghissime interviste. Oggi che si punta tutto su Riggio i passaggi mediatici persistono, ma i protagonisti del nuovo capitolo del romanzo criminale sulla trattativa sanno bene che i riflettori televisivi servono per fare presa su una parte dell’opinione pubblica, giudici popolari inclusi, ma sono armi spuntate contro il pronunciamento della Cassazione su Mannino.

 

E’ nelle aule di giustizia che la ricostruzione è crollata, ed è nelle aule di giustizia che si è tentato e si tenta di rimescolare le carte. Prima chiedendo alla Cassazione di dichiarare incostituzionale la sentenza assolutoria di Mannino e, una volta bocciato in quanto inammissibile il ricorso della procura generale, puntando tutto su Pietro Riggio. All in, dentro o fuori.

  

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

E così ci si spinge a paragonarlo a Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi che diede a Giovanni Falcone la chiave per comprendere e sconquassare Cosa Nostra. L’ex pubblico ministero Di Matteo, oggi al Csm, che è stato pm del processo sulla trattativa, trova delle “analogie” fra i due perché Buscetta “fu il primo a spiegare le realtà di Cosa Nostra” e Riggio “potrebbe essere uno dei collaboratori che provano a fare un salto di qualità a dire quello che sanno dei rapporti osceni che Cosa Nostra ha avuto con il potere”. C’è addirittura chi, come Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo e ideologo della trattativa, considera Riggio quel “pentito di Stato” che serviva per ricostruire la stagione delle stragi di mafia del ’92 e ’93.

 

PUBBLICITÁ

Nessun dubbio scalfisce le certezze di chi si sente da sempre depositario della verità e individua nel collaboratore il vessillo della nuova crociata di giustizia contro gli infedeli che si fanno troppe domande. Nessuno, o quasi, a interrogarsi se per caso l’ex mafioso nisseno piuttosto che Buscetta possa altrimenti essere il novello Vincenzo Scarantino, per fortuna senza la dose di bastonate rimediate dall’improbabile, che più improbabile non si poteva, ladruncolo di borgata affinché vestisse i panni del boss stragista.

 

Gli estimatori di Riggio, personaggio chiave della nuova sceneggiatura, si aggrappano per fede alle sue roboanti dichiarazioni. Replicano il cliché delle comparsate televisive che tanto ha funzionato in passato. Ciò che accade in aula, però, fa emergere una verità fa a pugni con le suggestioni. Riggio, pentito in tour che se ne va in giro a deporre nelle procure e nelle aule dei tribunali di mezza Italia, è davvero un novello Buscetta? Dell’ex agente della polizia penitenziaria si dovrebbe dubitare già per la tempistica delle sue dichiarazioni. Non è un collaboratore nuovo di zecca. La sua versione ha iniziato a raccontarla nel lontano 2009. Due anni fa, però, ha chiesto di parlare con i magistrati di Caltanissetta che indagano sulle stragi. E non si è più fermato. Ha aperto il rubinetto dei ricordi smarriti e riacquistati, inondando storie e uomini. Chi vuol sentire roba inedita su fatti e misfatti, non solo sulla trattativa Stato-mafia, convochi Riggio e non ne resterà deluso. Il collaboratore dice che per organizzare l’eccidio di Capaci lavorarono assieme boss di Cosa Nostra e uomini dei servizi segreti, italiani e libici. A premere il telecomando per fare saltare in aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, non sarebbe stato Giovanni Brusca, ma uno sbirro infedele che si prese gioco del boia di San Giuseppe Jato. Brusca credette di essere stato l’artefice dell’attentatuni ed invece era in playback e neppure se n’era accorto. Circostanze mai emerse nei processi finora celebrati.

 

Perché Riggio non ne ha parlato prima? Naturalmente per paura che gli uomini mascherati lo togliessero di mezzo, ma ora i tempi sono maturi. Un refrain stantio che ripetono tutti coloro a cui colpevolmente la memoria è sovvenuta fuori tempo massimo. E’ lo schermo con cui nascondono la vergogna che dovrebbe suscitare il loro silenzio ed invece si fa finta di nulla. Si aprono le braccia al figliol prodigo della verità. Una verità di sicuro rateizzata, fasulla si vedrà. Il punto è che Riggio colleziona una figuraccia dopo l’altra. Alcuni passaggi dei suoi racconti sprofondano nel grottesco. Le circostanze che racconta sulle stragi riferisce di averle apprese da Peluso, ex poliziotto conosciuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Peluso non vedeva l’ora di confidargli di avere riempito di esplosivo il canale di scolo dell’autostrada di Capaci, servendosi di uno skate board.

 

Un personaggio, Peluso, sfuggito ai radar di investigatori, mafiosi e pentiti di Cosa Nostra. Uno sconosciuto di cui nessuno ha sentito parlare. Vabbè, si dirà, Peluso è stato bravo a lavorare nell’ombra come solo gli 007 sanno fare. Certo, però, anche i servizi segreti, e deviati, hanno rischiato grosso fidandosi di un personaggio che ha collezionato precedenti penali per sfruttamento della prostituzione e truffa. Si dirà pure che Peluso potrebbe avere perso negli anni lo smalto criminale di un tempo. Se così fosse bisognerebbe spiegare un episodio del 2001, quando disse di poter fare arrestare Bernardo Provenzano. E’ un millantatore, fu la conclusione a cui giunse la procura di Palermo – allora guidata da Piero Grasso – che su Peluso ha indagato prima di mollarlo. In un altro carcere, a Villalba, Riggio dice di avere ricevuto ulteriori e dirompenti confidenze da Vincenzo Ferrara. Ferrara per Riggio è la carta vincente, visto che non è l’ultimo arrivato ma il cognato, perché ne ha sposato la sorella, del boss nisseno ed ergastolano Piddu Madonia. Madonia non era d’accordo sulla strategia delle stragi ed ebbe modo di dirlo in faccia ai corleonesi durante alcune riunioni alle quali Ferrara era presente. Sempre da Ferrara, Riggio seppe che a indicare dove eseguire le stragi del ’93 a Roma, Firenze e Milano fu l’ex senatore Marcello Dell’Utri, già condannato per mafia. Cosa volete che ne sapesse quel cafone di Totò Riina dei luoghi da colpire sul Continente.

  

 

Come si contrasta il racconto di una voce interna alla Cosa Nostra delle stragi? L’avvocato Basilio Milio, difensore del generale Mario Mori al processo sulla trattativa, si è preso la briga di ricostruire l’albero genealogico della consorte del capomafia nisseno. Non esiste un cognato di Madonia di cognome Ferrara. La moglie del boss ha una sorella, ma non si è sposata. Magari Riggio si sarà confuso sulla parentela. Esisterà un Ferrara con uno spessore tale da partecipare alle riunioni in cui furono decise le stragi? Scavando, scavando in effetti il cognome Ferrara è saltato fuori. E’ un personaggio morto nel 2012 (di mezzo ci sono sempre dei morti che non possono più dire la loro), ma come ha spiegato Marzia Giustolisi, capo della squadra mobile di Caltanissetta chiamata a riscontrare le dichiarazioni di Riggio, è un semi sconosciuto. Una mezza tacca del crimine organizzato, di cui non esiste neppure “una scheda criminologica”, “non è un personaggio di spicco di Cosa Nostra, non lo è mai stato”. Uno così come potrebbe avere partecipato alle riunioni operative per la strage di Capaci?

 

A pensarci bene è la stessa cosa che accadde con Scarantino. Come poteva essere vero che all’improvviso, e dal nulla, un delinquente di borgata irrompesse sulla scena, piazzandosi nel racconto reso ai pm nientepopodimeno che nella villa dove fu deciso di uccidere Paolo Borsellino? Impossibile, eppure ci hanno creduto.

 

Sempre da Peluso Riggio dice di avere saputo del progetto per uccidere il magistrato Leonardo Guarnotta, oggi in pensione, giudice istruttore del pool di Giovanni Falcone, che doveva essere ammazzato nel 2000. Spaventato dal racconto di Peluso e dalla proposta di dovere fare da fiancheggiatore dell’attentato, Riggio ne aveva subito parlato con due ufficiali dei quali in quel periodo era un informatore. Uno dei due era pure amico di Guarnotta e ha smentito che Riggio avesse indicato il giudice come bersaglio. Lo stesso Guarnotta, convocato dai pubblici ministeri di Caltanissetta, ha detto di essere all’oscuro di un possibile piano di morte che doveva essere un favore a Dell’Utri, visto che in quel momento Guarnotta era il presidente del tribunale che stava processando l’ex senatore di Forza Italia. Guarnotta è stato tranciante: “Non ebbi alcuna notizia su un progetto di attentato ai miei danni”. Strano, visto che avrebbe dovuto essere il primo a saperlo.

 

La galleria degli imbarazzi prosegue con un altro episodio che ha segnato le indagini degli ultimi decenni: la morte del boss Nino Gioé, trovato impiccato, la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, con i lacci delle scarpe in una cella a Rebibbia. Strana morte quella di uno dei fedelissimi di Totò Riina. Ufficialmente si disse suicidio, ma è forte il sospetto che lo abbiano ucciso per bloccare una sua collaborazione. Ed è nel solco di questo dubbio che si inseriscono le parole di Riggio, pronto a recitare la sua parte laddove le ombre rendono verosimili tutti i racconti, anche quelli non veri. Non fu un suicidio ma un omicidio, dice Riggio. Un suo collega, Gianfranco Di Modugno, in servizio quella notte nel carcere romano, gli disse che tutti sapevano com’erano andate davvero le cose. Peccato che il 29 marzo 1993 Di Modugno non fosse in servizio. “Anche questo è stato accertato dai difensori”, dice l’avvocato Francesco Bertorotta.

 

E che dire della storia della targa, un episodio che se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere. Riggio racconta di avere incontrato Giovanni Aiello, il poliziotto soprannominato “faccia da mostro”, oggi deceduto e presente nella sceneggiatura dei principali misteri italiani. Riggio ricorda tutto di quell’incontro. Peluso, una donna e “faccia da mostro” arrivarono a bordo di una Bmw. Ricorda pure la targa. Numeri e lettere, nessun tentennamento. Quella targa appartiene a un mezzo agricolo mai rubato, giusto per spazzare via il dubbio che Peluso se ne andasse in giro con una targa di copertura. Lo hanno scoperto ancora una volta i difensori degli imputati. Nei processi per le stragi di mafia fin qui celebrati, alcuni dei quali miseramente crollati sotto il peso delle menzogne, si è alzato un muro di diffidenza verso i legali. E adesso? Siamo ancora fermi alla più oscurantistica delle stagioni del diritto, per cui bisogna sempre e solo diffidare degli avvocati del diavolo?

 

Davvero Riggio merita di essere considerato il novello Buscetta, il pentito di Stato che cambierà il corso della storia e consentirà di punire i traditori delle istituzioni? Ecco come si è presentato al processo sulla trattativa: “Sto parlando adesso, perché hanno fatto di tutto per chiudermi la bocca. Chi mi ha minacciato ha una divisa e appartiene allo stato. Io ad oggi non sono uscito ancora dal carcere dopo cinque anni, non ho preso nemmeno un permesso premio e chi mi rigetta a me i benefici, pur avendo tutti i pareri favorevoli possibili e immaginabili, sono giudici di Roma che invece hanno concesso al dottore Dell’Utri la detenzione domiciliare per motivi di salute. Io ancora oggi non vedo luce e penso che me la farò tutta. Ma non è questo il problema per me farmi la galera, per me la decisione è quella di portare alla luce tutto quello che io so”. E se fosse la sua condizioni carceraria, la speranza di assicurarsi un futuro meno afflittivo a spingerne le fantasie? Dubbi, solo dubbi. A meno che non si postuli che Riggio sia il novello Buscetta. In questo caso basterà portare pazienza, il passaggio dalle aule giudiziarie al set televisivo è breve. Lo si vedrà comparire in video, di spalle o incappucciato, per raccontare le verità nascoste nella penombra della luce artificiale. E quando si ascolteranno dalla sua bocca le parole che si vogliono udire, Riggio sarà certamente il nuovo Buscetta. E non sarà certo un numero di targa a scalfire la fede di chi è certo di conoscere la verità.

 

PUBBLICITÁ