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Gli alibi incoerenti di Davigo

E’ questione personale o istituzionale? Il ricorso al Tar e le motivazioni contraddittorie per restare attaccato alla poltrona del Csm

Luciano Capone

"Ho fatto ricorso al Tar perché la questione trascende la mia persona e riguarda la natura del Consiglio". "Bastava un cenno del Presidente della Repubblica per farmi dimettere". Il voto del Csm "danneggia la mia immagine, perché mi fanno sembrare attaccato alla poltrona”. Le varie scuse del Dottor Sottile sono tutte in contraddizione tra loro, probabilmente nella sua quarantennale carriera di magistrato una difesa così sgangherata non gli è mai capitato di vederla

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Chissà cosa avrebbe detto Davigo se si fosse trovato davanti un imputato che si difende con tanti alibi, diversi e contraddittori tra loro. Probabilmente nella sua quarantennale carriera di magistrato, una difesa così sgangherata non gli è mai capitato di vederla. Eppure è la strategia difensiva che ha adottato, così come l’ha esposta in televisione, per motivare il suo ricorso al Tar contro il Csm che ha deliberato la sua decadenza da membro togato del Consiglio a causa del suo pensionamento.

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Chissà cosa avrebbe detto Davigo se si fosse trovato davanti un imputato che si difende con tanti alibi, diversi e contraddittori tra loro. Probabilmente nella sua quarantennale carriera di magistrato, una difesa così sgangherata non gli è mai capitato di vederla. Eppure è la strategia difensiva che ha adottato, così come l’ha esposta in televisione, per motivare il suo ricorso al Tar contro il Csm che ha deliberato la sua decadenza da membro togato del Consiglio a causa del suo pensionamento.

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Intervistato da Corrado Formigli a Piazzapulita, Piercamillo Davigo ha in pochi minuti fornito una serie di spiegazioni confuse e incoerenti, al loro interno e tra di loro. Prima ha detto che il problema non è personale ma istituzionale. “Ho fatto ricorso al Tar perché la questione trascende la mia persona e riguarda la natura del Consiglio. Ci sono due modi di intenderlo: il primo è come organo di rappresentanza, il secondo come organo di garanzia”. La sua sarebbe quindi una battaglia di principio per stabilire la natura “di garanzia” del Csm. Ma poco dopo, a seguito delle domande di Formigli, il giudice entra in contraddizione. “Era inaspettato che votassero per la mia decadenza, perché nessuno mi ha mai fatto capire… anzi, se segnali avevo avuto era che ci fosse una maggioranza perché io rimanessi”, dice in riferimento al comportamento dei suoi colleghi. E ancora: “Se mi fosse stato fatto anche solo capire che era problematica la mia permanenza, mi sarei dimesso io. Avrei evitato questo voto che spacca il Csm”. Quindi, pare di capire, che la motivazione diventa personale e non più istituzionale. Il tema non è più la “natura” del Csm, ma la modalità con cui si è arrivati alla decisione della sua fuoriuscita dal Consiglio. Davigo non voleva un voto contro di lui: se voto doveva esserci, questo poteva essere solo favorevole.

Sul fatto che la sua permanenza sia “problematica” ora non c’è più alcun dubbio. E neppure c’è bisogno di “segnali”, che peraltro c’erano già stati, in abbondanza, e non sono serviti a farlo dimettere: prima il parere dell’Avvocatura dello stato contrario alla sua permanenza e poi il voto, anch’esso negativo, della Commissione verifica titoli del Csm. Probabilmente Davigo non ha colto questi “segnali” e perciò ne è arrivato, infine, uno inequivocabile: il voto a larga maggioranza del plenum e, all’unanimità, del Comitato di presidenza del Csm (vicepresidene del Csm, Primo presidente e dal Procuratore generale della Corte di Cassazione). Quali altri “segnali” vuole? Diciamo che il voto a favore della sua decadenza dovrebbe essere sufficiente a fargli capire che la sua permanenza è “problematica”, soprattutto se l’alternativa è un rientro nel Csm attraverso un ricorso al Tar contro il voto del plenum.

Davigo poi dice che “sarebbe bastato un cenno del presidente della Repubblica per farmi dimettere, non c’era bisogno di arrivare al voto”. Un’altra affermazione contraddittoria rispetto alla tesi secondo cui il suo ricorso al Tar sarebbe una battaglia di principio sulla natura del Csm. Perché in tal caso, se si fosse ritirato per un “cenno”, sarebbe passato il principio che un membro del Csm si dimette su pressione del Capo dello stato senza una motivazione giuridica valida. A un certo punto, in un’altra risposta a Formigli, Davigo si contraddice di nuovo, palesando le vere motivazioni del suo ricorso, che sono tutte personali e non istituzionali. Il voto che ha spaccato il Csm, che poco prima diceva avrebbe evitato se avesse avuto un “segnale”, secondo l'ex magistrato non danneggia l’immagine del Csm ma “danneggia la mia, perché mi fanno sembrare attaccato alla poltrona. Se c’è qualcosa a cui non sono attaccato sono le poltrone”. Così Davigo, per dimostrare di non essere attaccato alla poltrona, fa un ricorso al Tar per restare attaccato alla poltrona. E lo chiamavano “Dottor Sottile”.

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