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Giudici, pm, eroi e nullafacenti

Chi lavora in tribunale? Il tempo perduto

Giuseppe Sottile

Tra lockdown e sezione feriale quasi cinque mesi di chiusura. I processi penali arretrati hanno superato la soglia di un milione e mezzo. Ma chi controlla le presenze nelle corti e soprattutto nelle procure? Nessuno

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Lui, Aristide Carabillò, meglio conosciuto come il principe del Foro, se la cava con un richiamo a Pitagora e davanti al deserto del Palazzo di Giustizia sostiene che “la verità ormai non la danno né le chiacchiere né i tribunali: la danno solo i numeri”. Statistiche ormai seppellite negli scantinati del ministero a Roma dicono che i processi penali arretrati hanno sfiorato, alla fine del 2019, la mastodontica cifra di un milione e mezzo. Se provate ad accatastare i fascicoli uno sopra l’altro vi troverete di fronte a una montagna alta quanto il Vesuvio. Sotto quella montagna di carte ci troverete di tutto: avvisi di garanzia, mandati di comparizione, decreti di archiviazione, ordinanze di rinvio a giudizio, memorie difensive, atti di imputazione, perizie giurate, sentenze di primo grado, motivazioni di appello, ricorsi in Cassazione. Ma ci troverete soprattutto uomini, drammi, lacrime, tribolazioni e rabbia. Sono almeno tre milioni di italiani che, in questo spaventoso anno di sventura, aspettano giustizia. La implorano le cosiddette parti lese, cioè le vittime e i familiari delle vittime: tutti quelli che hanno avuto un danno e sperano di ottenere quanto prima un risarcimento. E la reclamano anche i reprobi: quelli che sono stati segnati a dito dagli investigatori come responsabili del misfatto e sono stati appesi al palo della gogna; quelli che sono finiti in carcere o ai domiciliari, che sono stati già interrogati dal pubblico ministero e poi dal giudice per le indagini preliminari e ora chiedono con insistenza che un collegio giudicante li liberi da questo calvario senza fine, senza tempo, senza confini. Dentro o fuori, poco importa. L’importante è uscirne vivi. Ma i giudici dove sono? 

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Lui, Aristide Carabillò, meglio conosciuto come il principe del Foro, se la cava con un richiamo a Pitagora e davanti al deserto del Palazzo di Giustizia sostiene che “la verità ormai non la danno né le chiacchiere né i tribunali: la danno solo i numeri”. Statistiche ormai seppellite negli scantinati del ministero a Roma dicono che i processi penali arretrati hanno sfiorato, alla fine del 2019, la mastodontica cifra di un milione e mezzo. Se provate ad accatastare i fascicoli uno sopra l’altro vi troverete di fronte a una montagna alta quanto il Vesuvio. Sotto quella montagna di carte ci troverete di tutto: avvisi di garanzia, mandati di comparizione, decreti di archiviazione, ordinanze di rinvio a giudizio, memorie difensive, atti di imputazione, perizie giurate, sentenze di primo grado, motivazioni di appello, ricorsi in Cassazione. Ma ci troverete soprattutto uomini, drammi, lacrime, tribolazioni e rabbia. Sono almeno tre milioni di italiani che, in questo spaventoso anno di sventura, aspettano giustizia. La implorano le cosiddette parti lese, cioè le vittime e i familiari delle vittime: tutti quelli che hanno avuto un danno e sperano di ottenere quanto prima un risarcimento. E la reclamano anche i reprobi: quelli che sono stati segnati a dito dagli investigatori come responsabili del misfatto e sono stati appesi al palo della gogna; quelli che sono finiti in carcere o ai domiciliari, che sono stati già interrogati dal pubblico ministero e poi dal giudice per le indagini preliminari e ora chiedono con insistenza che un collegio giudicante li liberi da questo calvario senza fine, senza tempo, senza confini. Dentro o fuori, poco importa. L’importante è uscirne vivi. Ma i giudici dove sono? 

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Per quattro mesi la paura del Covid ha paralizzato i palazzi di giustizia: aule chiuse, corridoi deserti, cancellerie sprangate, avvocati a spasso o in fila per uno, con la mascherina, quando il lockdown si è appena allentato. Poi però è subentrata la sezione feriale e i tribunali si sono di nuovo svuotati. Si riprenderà, se non ci saranno complicazioni, tra una settimana. Ma bisognerà adottare tutte le cautele previste dalla pandemia e sarà difficile che gli uffici possano riprendere il ritmo dei tempi che furono. Si andrà avanti lentamente, con i piedi di piombo. A Palermo, città di mafia e di tutte le emergenze, a fine giugno la cronaca ha registrato il rinvio di ottomila processi. E’ probabile che, a conclusione della sezione feriale, l’arretrato toccherà quota quindicimila. O forse più. Quale governo avrà la forza o la fantasia di trovare una soluzione? Quale risposta darà il ministro Guardasigilli, Alfonso Bonafede, a quelle vittime e a quei reprobi che il lockdown ha spinto ancora più giù, nelle caverne di un inferno senza orizzonte e senza speranze?

 

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Il numero dei magistrati è quello che è: in tutta Italia sono poco più di novemila. E la giustizia non è come la scuola; il ministro non può fare ricorso a un esercito di supplenti o di precari. Ci vuole, oltre allo studio e alla competenza, anche una investitura sacra e inviolabile da parte del Consiglio superiore della magistratura. Si possono bandire nuovi concorsi, ma con tempi prevedibilmente lunghi, lunghissimi. Tuttavia un rimedio dovrà pur esserci. Sommando rinvii su rinvii presto arriveremo alla paralisi totale. Non resta che guardare all’organizzazione interna degli uffici e trovare lì una soluzione. Forse sarà necessario sacrificare qualche privilegio, ma un tentativo andrebbe comunque fatto. “Comincerei dalla cosa più semplice, più elementare: l’orario di lavoro”, sentenzia Aristide Carabillò, principe del Foro, con l’aria di chi ha appena scoperto non un uovo ma un ovetto di Colombo. E chi può dargli torto?

 

Non c’è ospedale in cui i medici non siano obbligati a firmare un foglio di presenza, entrata e uscita. Non c’è caserma in cui ogni militare non sia sottoposto agli obblighi imposti dalla gerarchia. Non c’è ministero in cui il capo del personale non chieda a ogni funzionario conto e ragione sull’organizzazione e tempi del suo lavoro. Non c’è ufficio in cui non ci sia una disciplina e dove non si valuti la produttività di ogni singolo operatore, magari promovendo quelli che hanno fatto il proprio dovere e sanzionando quelli che non hanno rispettato le regole. Il mondo del lavoro, piaccia o no, è fatto così. Ma il mondo della giustizia italiana è un altro mondo. 

 

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“Il magistrato è soggetto solo alla legge”, si legge tra i dieci comandamenti dell’ordinamento giudiziario. Il principio è stato fissato a lettere d’oro per garantire a ogni giudice autonomia e indipendenza. Ma, a forza di interpretazioni e dilatazioni da parte di quell’organo di governo che è il Csm, la salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza è diventata per ciascun magistrato la libertà di fare quello che vuole. E guai a contrastarlo. E guai se un procuratore si azzarda a chiedere a uno dei suoi sostituti il perché o il per come di un ritardo, di una negligenza, di un arbitrio o di un menefreghismo. Apriti cielo. Il sostituto griderà immediatamente allo scandalo. Dirà che i tempi e i modi di una inchiesta appartengono solo ed esclusivamente alle sue decisioni; che fargli fretta equivale a comprimere la libertà delle sue scelte e quasi certamente chiederà la tutela del Csm e dell’Associazione nazionale dei magistrati. Se il fervido e solerte Bonafede mostrasse per i tempi della giustizia la stessa passione che lo ha spinto a privilegiare le manette – le manette e nulla più – potrebbe farsi una passeggiata da via Arenula a piazza Indipendenza, dove ha sede l’organo di autogoverno dei giudici. Negli archivi di Palazzo dei Marescialli potrebbe fare scoperte illuminanti e capire che non bastano le devastazioni del trojan per sbaragliare i corrotti e rendere efficace la giustizia italiana; che non basta dotare i pubblici ministeri degli strumenti più invasivi e sbirreschi per diffondere la cultura del diritto; che non basta assecondare le pulsazioni forcaiole di chi urla “onestà-onestà” per garantire al paese sicurezza e legalità.

 

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Attraverso l’archivio del Csm il ministro Guardasigilli potrebbe ricostruire un episodio che, da solo, vale forse più di un trattato di sociologia giudiziaria. Dimostra come le correnti della magistratura abbiano lentamente e inesorabilmente abbattuto il principio di autorità e gerarchia che, prima degli anni Settanta, regolava bene o male la vita degli uffici. Le procure avevano un capo al quale si dava rigorosamente del lei. Tribunali e Corti di Appello avevano presidenti ai quali ci si rivolgeva con un rispettosissimo “sua eccellenza”. Nostalgie? Può darsi. Oggi è tutto stravolto. E lo stravolgimento ha origine proprio negli anni ai quali si riferisce la “pratica”, allora si chiamava così, che il giovane Bonafede dovrebbe studiare con straordinaria diligenza; con una acribia degna di un uomo delle istituzioni. 

 

Eccola. Succede che un giorno di quegli anni arriva sul tavolo di Salvatore Curti Giardina, procuratore capo di Palermo, un rapporto della polizia, su fatti molto gravi, che faceva riferimento ad altri nove dossier spediti prima del suo insediamento e che i sostituti – tutti brillanti e tutti impancati su un furore antimafia – avevano puntualmente lasciato a marcire nei cassetti. Il procuratore, forse per non urtare la suscettibilità di nessuno, richiama a sé l’inchiesta, formula di suo pugno i capi di imputazione e invia il fascicolo all’ufficio del giudice istruttore per le decisioni conseguenti. Da un lato toglie ai suoi pubblici ministeri il peso di di una responsabilità che loro avevano comunque preso sottogamba; e dall’altro lato accelera un provvedimento che gli investigatori della polizia attendevano comunque da parecchio tempo. 

 

Non l’avesse mai fatto. I sostituti, ciascuno utilizzando i canali della propria corrente di appartenenza, hanno cercato rifugio e protezione nel Csm. Hanno pianto sulla spalla dei propri referenti e nel giro di due brevi sedute, Curti Giardina si è trovato sul banco degli imputati. Un membro della “disciplinare”, tra i più accesi fiancheggiatori della sinistra giudiziaria, lanciò un grido guerrigliero – “Questo procuratore è da distruggere, da azzerare” – e i sostituti, un po’ furbi e un po’ fannulloni, vissero tutti felici e contenti. Si accreditarono come eroi antimafia e oggi sono ancora lì: incontrollati e incontrollabili. Orario di lavoro? Manco per sogno. Iscritti da sempre alla categoria dei magistrati coraggiosi, scrivono un libro all’anno, rilasciano un’intervista al giorno, non perdono un solo talk-show. Scortati da blindatissimi apparati di sicurezza e pressati da impegni sempre urgenti e sempre improrogabili, attraversano l’Italia in lungo e in largo: ora per una conferenza sulle trame oscure, ora per un dibattito sui registi occulti. Ma non finisce qui. Perché poi c’è da ritirare la cittadinanza onoraria assegnata dal sindaco di un comune che, come tutta la società civile, “ha fame e sete di verità e giustizia”; e c’è pure la scuola che vuole conoscere i misteri dell’oscena trattativa tra uno Stato, ovviamente corrotto, e i boss di Cosa nostra sempre in agguato e pronti a stritolare questa nostra fragile democrazia; e poi c’è da dare una mano all’amico giornalista che ha bisogno di uno scoop, di un brandello di novità – vera o semplicemente ipotizzata – che gli consenta di confezionare un’inchiesta con i fiocchi e di attribuire le sue congetture “ai sospetti del pm”; e poi c’è da posare davanti alle telecamere per un ultimo docufilm sulla madre di tutte le stragi, che il 23 maggio è quella di Capaci e il 19 luglio diventa quella di via D’Amelio; e poi c’è da contribuire alla sceneggiatura di un film che ” faccia finalmente luce sulla stagione oscura dei depistaggi”; e poi c’è da preparare il viaggio in Sud America, Guatemala o Argentina fa lo stesso, per portare il seme del coraggio e della legalità anche in quel quartiere di Buenos Aires che Borges amava chiamare “Palermo di chitarra e coltello”. E sì, perché, il magistrato coraggioso, non può starsene chiuso in una stanza del Palazzo di Giustizia a fare semplicemente il magistrato: a interrogare testimoni, a cercare prove, a scavare tra dieci, cento, mille nefandezze. Oggi per i magistrati coraggiosi c’è una nuova frontiera: il circo mediatico. Al quale attribuiscono, spesso a ragione, il potere magico di trasformare le loro ipotesi in verità assolute e le loro supposizioni in marmoree certezze. Dentro quel circo ci vivono ventiquattr’ore su ventiquattro. Senza imbarazzo, senza esitazioni, senza tentennamenti, senza scrupoli. Sanno che il circo – spesso, molto spesso – vale più di un processo lento e barboso celebrato davanti a una Corte d’Assise o a una Corte d’Appello; o davanti a quei parrucconi della Cassazione. 

 

Staranno lì fino alla pensione. A tutelare la loro autonomia e la loro indipendenza, ma soprattutto la loro libertà di fare quello che vogliono. Tanto, chi potrà mai permettersi di sollevare un dubbio su una retata eclatante ma priva di prove; chi avrà mai il coraggio di mettere lingua su un processo imbastito con le sole dichiarazioni dei pentiti o di un pataccaro trovato per caso sulla strada di un’improbabile redenzione? Quale procuratore generale o procuratore capo o procuratore distrettuale potrà mai azzardarsi a chiedere se oggi il magistrato coraggioso ha lavorato “per il disbrigo degli affari correnti” o è andato in giro a predicare il verbo – sempre nobile, per carità – dell’antimafia militante? 

 

Ci vorrebbe una nuova legge, un decreto, addirittura un dpcm, tanto per restare al linguaggio imposto dall’emergenza Covid. Un solo articolo: “Il magistrato è soggetto alla legge e all’orario di lavoro”. Sarebbe già una rivoluzione. Anche se poi tutti i magistrati di prima fila andrebbero in tv, dal solito Giletti, a strapparsi le vesti per il nuovo bavaglio, per il nuovo attentato alla autonomia e all’indipendenza. Chissà quale arzigogolo si inventerebbe Piercamillo Davigo, il più duro e puro fra i giudici d’avanguardia, per contrastare l’autoritario disegno del governo. Chissà a quale trama opaca e maleodorante farebbero riferimento Nino Di Matteo, il più coraggioso tra i magistrati coraggiosi, o Catello Maresca, o Luigi De Magistris per inchiodare il ministro che ha sottoscritto quell’articolo di legge al sospetto di una “evidente subordinazione agli interessi mafiosi”. E chissà con quanta sicumera si farebbe avanti Nicola Gratteri, pettoruto eroe di Catanzaro, reduce da una battaglia boriosa con la quale ha ridotto al silenzio nel gennaio scorso il procuratore generale del suo distretto giudiziario, Otello Lupacchini, colpevole di avere timidamente avanzato il timore che i 334 arresti di presunti mafiosi calabresi, esibiti con tanta enfasi da Gratteri, potessero concludersi in modo a dir poco evanescente. “Per quanto concerne l’operazione – aveva affermato in una intervista a Tgcom24 – non so nulla di più di ciò che è stato pubblicato dalla stampa, in quanto vi è la buona abitudine da parte della procura distrettuale di Catanzaro, di saltare tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale”. Altro che legittimo esercizio della gerarchia. Altro che affermazione del principio di autorità. Il ministro Bonafede e il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, anziché ingrugnirsi con chi aveva “saltato tutte le regole di coordinamento e di collegamento” tra i vari uffici del Palazzo di Giustizia, hanno impugnato la spada di fuoco, hanno mobilitato il Sant’Uffizio del Consiglio superiore della magistratura e hanno ottenuto, hic et nunc, dalla commissione disciplinare il trasferimento di Lupacchini a Torino come sostituto procuratore generale. Un trionfo per Gratteri. Un viatico per chiunque, da ora in poi, vorrà scrollarsi di dosso ogni controllo sul proprio operato, per chi non sopporta più nemmeno il galateo di una semplice informazione al magistrato che, secondo l’ordinamento giudiziario, siede comunque al piano superiore. 

 


E poi ci sono i magistrati coraggiosi. Scrivono un libro all’anno, rilasciano un’intervista al giorno. Orario di lavoro? Manco per sogno


  

Per carità, nessuno pensi lontanamente che il deserto nel quale è sprofondata la giustizia sia da imputare solamente alle imprese e agli svolazzi dei magistrati coraggiosi, che restano comunque una casta bramina interna alle procure e al potere – anzi, allo strapotere – che governo e Parlamento, vuoi per pavidità vuoi per necessità, hanno abbondantemente ceduto ai pubblici ministeri. Anche i giudici dei tribunali e delle corti d’appello hanno un rapporto speciale, per non dire metafisico, con l’orario di lavoro. Certo, ogni sezione ha il proprio calendario di udienze e ogni collegio conta due o tre togati che devono comunque presentarsi in aula contemporaneamente. Ma spesso – proprio perché nessuno può ledere l’autonomia e il libero convincimento di un giudice – prevale una certa rilassatezza, chiamiamola così, che spesso incide pesantemente sui tempi del processo. Ci sono, ovviamente dei casi estremi. Ricordate Silvana Saguto, presidente della sezione del Tribunale di Palermo per le misure di prevenzione, finita a sua volta sotto processo perché affidava i più ricchi incarichi giudiziari a parenti, amici e confratelli? Le sue udienze, fissate per le nove nel modulo della citazione, non cominciavano mai prima di mezzogiorno. E dietro questo atteggiamento, un po’ spocchioso e un po’ tirannico, non c’era solo la volubilità di un capriccio. C’era il disegno di moltiplicare il numero delle udienze e di avere all’un tempo mano libera per spolpare fino all’osso le aziende e i patrimoni, strappati agli imprenditori sospettati di collusioni con la mafia. 

 

Un caso estremo, si diceva, quello della Saguto. Gli altri giudici arrivano in aula più o meno puntualmente. Ma se insorge un intoppo raramente si affannano per risolverlo e andare velocemente in sentenza. Specie quando si tratta fronteggiare, in un processo di mafia, le pretese dell’accusa, spesso rappresentata in udienza da un magistrato coraggioso. Il pm presenta una lista di 500 testimoni? Il presidente l’accontenta, tanto chi glie lo vieta? E che gli importa se il processo si trascinerà per almeno cinque anni? Il rappresentante dell’accusa chiede di riaprire l’istruttoria o di riascoltare un pentito che ha annusato il vento e si è ricordato all’improvviso di un dettaglio che dieci anni prima non aveva rivelato? Il presidente dice sì. Perché gli eroi antimafia non sopportano mai un diniego né l’osservanza rigorosa della procedura penale. 

 

Di deroga in deroga arriviamo così all’altro buco nero, quello dei periti d’ufficio. Ottenuto l’incarico e la dovuta remunerazione – qui non c’è concorso, l’assegnazione avviene solo in base a uno stretto rapporto di fiducia tra il professionista e il magistrato – il consulente chiede tempo per ultimare il suo lavoro. Dice che consegnerà la perizia entro sessanta giorni, cioè due mesi, ma quel termine non gli basta quasi mai. Chiede una deroga e il giudice non può che rinviare l’udienza: altro giro altra corsa. La stessa indulgenza vale per il deposito delle motivazioni di una sentenza, atteso con trepidazioni dalle parti in causa per presentare un eventuale ricorso e ottenere un grado superiore di giudizio. Ogni processo ha evidentemente una sua complessità e il giudice relatore la prende con comodo: la legge prevede il deposito entro novanta giorni, ma non si tratta di una scadenza perentoria. La data si può discutere e così capita che si impieghino fino a cinque mesi per una motivazione che chiunque avrebbe potuto scrivere in due o tre settimane. Tanto, chi controlla? Chi busserà mai alla porta di un giudice per sapere se ha lavorato quattro ore al giorno o solo tre giorni in un mese?

 

Con questi tempi e, soprattutto, con l’elasticità delle regole che abbiamo fin qui descritto, è molto difficile immaginare un recupero dell’arretrato che si è ammonticchiato in questi ultimi cinque mesi nei palazzi di giustizia. I lunghi corridoi restano popolati solo da fantasmi: da avvocati che smaniano per portare a casa un risultato e presentare una parcella al cliente; da due o tre cancellieri applicati alla sezione feriale; da due o tre sostituti procuratori in servizio, malgré tout, per rispondere alle emergenze o al cosiddetto codice rosso, ultima invenzione con la quale lo Stato pretende di fronteggiare il rischio di un attentato terroristico o di una violenza alle donne. L’immagine, se riesci a passare i controlli, lo scanner e a raggiungere l’immenso atrio sul quale si affacciano le aule vuote della Corte di Assise e della Corte d’Assise d’Appello, è desolata e desolante. Hai l’impressione che da un momento all’altro possa apparirti lì, vicino al bar ovviamente chiuso, Miss Flite, la vecchietta che in “Bleak House” di Charles Dickens si apposta giorno dopo giorno nei corridoi della Court of Chancery trascinandosi dietro una borsa con i suoi documenti, nella perenne attesa di un giudizio che le restituisca finalmente il patrimonio perduto a seguito di remote e intrigatissime vicende giudiziarie. Miss Flite cerca nient’altro che un po’ di giustizia e chiunque abbia avuto a che fare con un tribunale, con una procura o con una corte d’appello sa di quale sale è fatta la sua peregrinazione tra le aule e i corridoi della Court. La curiosità, semmai, sta nei documenti. Quali prove, quali denunce, quali speranze custodiva la vecchietta di Dickens? E soprattutto: quali domande tirerebbe fuori oggi dalla sua borsa se, per un miracolo della natura e della letteratura, Miss Flite – con la sua tenacia di fata malvagia – capitasse in uno degli imperiosi palazzi che da Trieste in giù amministrano la giustizia in nome del popolo italiano? 

 

Pensate: per affermare le sue ragioni questa donna fragile e svampita ha percorso venti miglia a piedi, dalla City a Bleak House, “in a pair of dancing shoes”, senza beccare nemmeno un raffreddore. Potrebbe mai nutrire una qualche soggezione per un magistrato, per un pubblico ministero, per un inquisitore scortato e incoccardato? Miss Flite percorrerebbe altri venti o quaranta miglia pur di incontrare in un qualunque palazzo di Roma il presidente del Consiglio o il ministro Guardasigilli. Invocherebbe, anche lei, un dpcm con un solo articolo: “Il magistrato è soggetto solo alla legge e all’orario di lavoro”. Dickens e con lui l’intera Court of Chancery ne sarebbero orgogliosi.

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