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Ricordate calciopoli? Palamara ora sperimenta il metodo Palamara. Chiacchiere con Moggi jr

Massimo Zampini

Alessandro Moggi, figlio di Luciano, nel 2006 è finito nel tritacarne delle intercettazioni (non rilevanti) che hanno cambiato per sempre la sua vita privata. "Tutto torna, la ruota gira"

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Milano. “Dai, come cazzo hanno fatto a pubblicare una cosa del genere?”. Alessandro Moggi non se ne capacita ancora. Figlio di Luciano, nel 2006 è presidente della Gea, una società composta da altri figli di padri celebri (Calleri, Geronzi e altri) e alcuni dei procuratori più importanti d’Italia. Tra il febbraio e l’estate di quell’anno viene iscritto nel registro degli indagati dal pm Luca Palamara, vede comparire sui giornali delle intercettazioni non rilevanti che cambieranno per sempre la sua vita privata, viene accusato di associazione a delinquere e illecita concorrenza con violenza a minacce e a luglio mette in liquidazione la società, in vista di un processo che pare già segnato. C’è tornato in mente per i titoloni della scorsa estate e di questi giorni su Palamara e le sue telefonate, lo scandalo CSM, la trascrizioni di intercettazioni non penalmente rilevanti, le chat in cui dà giudizi senza filtri su Salvini e così via. Sensazioni? “Fa un po' impressione: un conto sono lo sport, la politica o la finanza, un altro è la magistratura. Mi impressiona che un magistrato – che è lì a tutela della giustizia, di noi tutti – si trovi in una situazione così imbarazzante e leggere certe sue espressioni così forti nei confronti di alcuni personaggi pubblici mi fa pensare che già nel 2006 potesse agire per tesi e con pregiudizi. Come si usa dire, nella vita tutto torna, la ruota gira: sta passando nel tritacarne delle intercettazioni, è un tritacarne feroce, poi magari risulterà innocente anche lui. Ma a oggi sa solo la sua coscienza se ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare oppure no, ho imparato sulla mia pelle a non fidarmi delle sentenze sui giornali”. Vi siete più rivisti da allora? “No, ci siamo incrociati in qualche ristorante alla moda a Roma: i posti belli piacciono a tutti, a me come ai pm. Ma non so neanche se mi abbia riconosciuto: sono cambiato da allora, ho tutti i capelli bianchi, forse anche a causa sua (si sente un accenno di sorriso)”.

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Milano. “Dai, come cazzo hanno fatto a pubblicare una cosa del genere?”. Alessandro Moggi non se ne capacita ancora. Figlio di Luciano, nel 2006 è presidente della Gea, una società composta da altri figli di padri celebri (Calleri, Geronzi e altri) e alcuni dei procuratori più importanti d’Italia. Tra il febbraio e l’estate di quell’anno viene iscritto nel registro degli indagati dal pm Luca Palamara, vede comparire sui giornali delle intercettazioni non rilevanti che cambieranno per sempre la sua vita privata, viene accusato di associazione a delinquere e illecita concorrenza con violenza a minacce e a luglio mette in liquidazione la società, in vista di un processo che pare già segnato. C’è tornato in mente per i titoloni della scorsa estate e di questi giorni su Palamara e le sue telefonate, lo scandalo CSM, la trascrizioni di intercettazioni non penalmente rilevanti, le chat in cui dà giudizi senza filtri su Salvini e così via. Sensazioni? “Fa un po' impressione: un conto sono lo sport, la politica o la finanza, un altro è la magistratura. Mi impressiona che un magistrato – che è lì a tutela della giustizia, di noi tutti – si trovi in una situazione così imbarazzante e leggere certe sue espressioni così forti nei confronti di alcuni personaggi pubblici mi fa pensare che già nel 2006 potesse agire per tesi e con pregiudizi. Come si usa dire, nella vita tutto torna, la ruota gira: sta passando nel tritacarne delle intercettazioni, è un tritacarne feroce, poi magari risulterà innocente anche lui. Ma a oggi sa solo la sua coscienza se ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare oppure no, ho imparato sulla mia pelle a non fidarmi delle sentenze sui giornali”. Vi siete più rivisti da allora? “No, ci siamo incrociati in qualche ristorante alla moda a Roma: i posti belli piacciono a tutti, a me come ai pm. Ma non so neanche se mi abbia riconosciuto: sono cambiato da allora, ho tutti i capelli bianchi, forse anche a causa sua (si sente un accenno di sorriso)”.

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Dopo una breve esperienza da calciatore, lei diventa procuratore. E poi si arriva alla Gea. Non ispiravate grande simpatia: una serie di figli di nomi noti, tutti tra banca, affari e calcio. Era stata aperta anche una inchiesta Figc. Percepivate questa diffidenza? “Siamo italiani, quindi invidiosi di quello che ha il prossimo e di chi riesce nel proprio lavoro. Sono tuttora socio di Riccardo Calleri e Chiara Geronzi, ma ora la nuova Gea svolge attività di marketing ed eventi. Me lo faccia dire, perché ne sono orgoglioso: abbiamo organizzato due eventi benefici per le vittime del Ponte Morandi e per il Centro cardiologico Monzino, raccogliendo 120 mila euro in entrambe le occasioni grazie a ospiti di rilievo. Recentemente abbiamo organizzato due puntate di United per l’Italia per Sky con 20 calciatori, capitanati da Immobile e Totti, protagonisti di simulazioni di partita sulla playstation, raccogliendo soldi per la Protezione Civile, impegnata con la pandemia. E non si può certo dire che personaggi così importanti ci aiutino, del tutto gratuitamente, perché oggi siamo i figli di chissà chi. Vuol dire che amiamo lavorare e ci viene riconosciuto”. Arriva il 2006, ogni giorno una rivelazione. Leggo da Repubblica, 15 febbraio 2006: “A. Moggi iscritto tra gli indagati a Roma, così i figli dei potenti hanno messo le mani sul calcio”. “Me lo ha detto il mio ufficio stampa di allora. Ricordo tutto. Sono a Fiumicino, sul volo per Milano che stava per partire, in prima fila. Arriva questa telefonata: Alessandro, ti hanno iscritto sul registro. Sbianco, prendo la borsa e scendo dall’aereo. Un pugno nello stomaco. L’accusa sarà di associazione a delinquere, concorrenza illecita, violenza: reati tremendi, gli avvocati mi dicono che sono accuse previste solo per reati di una gravità assoluta”. Avevate messo le mani sul calcio? “Macché, eravamo una società importante, forse la prima in Europa, stop. Non può essere una colpa”. Gazzetta, 19 maggio 2006: “Lippi-Gea, rapporti stretti”. Gira anche questa accusa: Lippi convoca i giocatori della Gea. “Qui la storia ha emesso il più chiaro e clamoroso dei verdetti: cretinate colossali, Lippi ha vinto i Mondiali e le ha messe a tacere immediatamente. Almeno quelle”. Corriere della Sera, 22 maggio 2006: la Gea controlla “320 giocatori, 29 allenatori”. Tanti, eh? “Ma quali 320 giocatori! Le faccio un esempio: mi mostrano l’elenco di calciatori predisposto dall’accusa. Lo scorro al volo, a un certo punto vedo indicato “Marek” e sotto, come altro nostro assistito, “Jankulovski”. Per loro contavano per due, ma Marek era il nome e Jankulovski il cognome. Lo vede come venivano date le notizie? Evidentemente qualcuno le faceva arrivare così…”. Lo ha fatto presente al pm Palamara? “Non ho potuto. Ho chiesto di farmi interrogare ma non mi è stato concesso. Forse non voleva che potessi spiegare che Marek Jankulovski era un solo giocatore e non due… Ma gliene dico un’altra”. Dica. “Durante il processo viene chiamato a testimoniare un giocatore di secondo piano, che tenta di spiegare la sua carriera non all’altezza dando la colpa a noi, come quelli che dicono “ero fortissimo, ma mi sono rotto il ginocchio”. Repubblica il giorno dopo ci fa il titolone su due pagine. La settimana seguente parlano Nedved e Del Piero: difendono il nostro operato, affermano che non c’è alcuna interferenza, ma sul giornale c’è solo un trafiletto. Ne chiedo conto al giornalista. Risposta: la gente vuole leggere quelle cose lì. Capisce? Così non c’è difesa…”. A luglio di quell’anno mettete la Gea in liquidazione. “Ripensandoci oggi, non avremmo dovuto farlo. Il punto è che la pressione mediatica su Calciopoli è stata paradossalmente ancora più forte rispetto a Tangentopoli, perché nel 1992 non c’era internet a spingere e nemmeno Sky con un canale dedicato all’inchiesta nel mosaico del Tg. Il giorno dell’elezione del presidente della Repubblica, il Corriere della Sera, sotto il titolo su Napolitano, ha dedicato mezza prima pagina allo scandalo del calcio. Avremmo dovuto resistere, aspettare, ma è stato tutto troppo violento”.

 

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Arriviamo alla vicenda più nota al grande pubblico: quel tentativo di weekend con Ilaria D’Amico. “Ecco, lì mi è crollato il mondo addosso. Ma più per mia moglie che per me: mi è spiaciuto per lei, io posso fare degli sbagli, ma li ha pagati lei, che non c’entrava nulla con la vicenda processuale. Bisogna pensare anche a questo, quando si diffondono intercettazioni relative a vicende personali: c’è l’imputato, ma anche la gente che gli sta intorno. C’è una donna, con la sua sensibilità, ci sono due bambini, come cazzo si fa a pubblicare una cosa del genere?”. Come è venuto a sapere che sarebbe uscita quella storia? “Non lo dimenticherò mai: siamo in campagna a casa di mia moglie. In quel momento sono in giardino a giocare con uno dei due bambini. Mi chiama l’avvocato. Io smetto di giocare, improvvisamente mi sdraio per terra, come se avessi perso improvvisamente le forze. Mia moglie mi guarda e mi chiede cosa succeda. Rispondo con una frase senza senso: niente, mi sono messo giù così”. Così finisce il suo matrimonio? “Non finisce proprio lì, ma è un motivo importante di rottura. Ci sono due figli, ancora piccolini, per un po’ cerchiamo di riaggiustare. Sono sbagli, ma certe cose, se accadono, di solito restano tra moglie e marito, che poi decidono come gestirle. Ma così, se la storia finisce addirittura a ‘Striscia’ con un tapiro a Ilaria D’Amico, è impossibile gestirle”.

 

Torniamo a noi. Quando la bufera è passata, anni dopo, finiscono i processi: assoluzione totale per le accuse principali, rimane una condanna per violenza privata, poi prescritta, nei confronti dei due giovani Zeytulaev e Boudianski. “Lo sapevo sin dall’inizio: le accuse si sono sgretolate in tre gradi di giudizio, sciolte come neve al sole. Nessuna associazione, nessuna concorrenza illecita, assurdità che però sui giornali venivano date per assodate ancor prima del processo. Anni di fandonie cancellate in giudizio, chiaramente con spazio minuscolo rispetto ai giorni dell’accusa”. Però rimane la violenza privata verso quei due ragazzi. Per i giudici di appello, Moggi jr avrebbe assunto nei confronti dei due giovani  “un atteggiamento minatorio, al fine di costringerli a firmare una procura in suo favore”; il suo comportamento, “lungi dall’attestarsi sulla mera prospettazione di benefici e dall’assumere modalità tranquille e defilate”, “fu estremamente minaccioso”. Non riconosce neanche di essere stato troppo arrogante, nei loro confronti? “No, neanche quello. Ci ho parlato tre minuti in vita mia, erano solo due giovani abbastanza promettenti. Non sono stato arrogante o prepotente, tantomeno minaccioso. Odio chi giura, ma stavolta vorrei farlo. Quando capisco che non vogliono accettare la nostra proposta, dico alla persona che me li ha presentati: se non sono interessati non mi frega nulla. Non avevo bisogno di loro”. Non avete sbagliato proprio nulla? Nessun rimorso? “Sì, quello di non esserci difesi sin dall’inizio rispetto alle voci, da sempre maligne nei nostri confronti. Sottovalutavamo, pensavamo che contribuissero a darci ancora più importanza. Errore clamoroso”. E verso suo padre ha qualche risentimento? “Nessuno, gli devo tutto. Per me mio padre è un idolo, nel lavoro e come genitore. Ma sbagliava a lamentarsi del nome Moggiopoli, che diversi media avevano dato in prima istanza a quella che poi sarebbe stata Calciopoli. Era un vestito fatto da un sarto apposta per lui: il nome giusto era effettivamente Moggiopoli, perché era contro Luciano Moggi. Non era uno spaccato del mondo del calcio: gli altri big non erano intercettati, altre telefonate non interessavano. Qualcuno voleva fare il ribaltone”. Recentemente lei ha scritto un libro, ha detto di avere pensato anche al suicidio. “In quei giorni dormivo e basta, non volevo incontrare nessuno: ti vengono in mente pensieri di ogni tipo. Poi man mano, grazie ai figli e anche al lavoro, pian piano rivedi la luce”.

 

Vuole dare un consiglio a Palamara, ora che si trova in una situazione che lei ha già vissuto? “L’unico consiglio è credere nella giustizia, avendo pazienza e aspettando che tutto torni. Ripeto: lo sa la sua coscienza. Se non ha fatto nulla di male non deve temere niente”. Seguirà questa vicenda? “La seguirò con attenzione, sia da cittadino che da suo ex accusato. Ma mi permetta un’ultima osservazione, quantomeno curiosa: sfogliando diversi giornali, vedo che affrontano le rivelazioni di questi giorni con minor clamore e indignazione rispetto al 2006, quando a essere coinvolti erano dei procuratori e dirigenti sportivi e non dei magistrati e il Consiglio superiore della magistratura. Mi dica: le sembra normale?

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