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Il Giro delle Fiandre è una festa nazionale. Parla Michele Bartoli

Giovanni Battistuzzi

Il campione pisano ci racconta perché il pavé è una questione d’amore e cosa vuol dire pedalare (e vincere) la Ronde

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C’è un giorno nel quale quelle collinette che pian piano degradano verdi verso il blu del mare del nord, scintillanti quando il sole si degna di far loro visita, velate di una bruma sottile quando la pioggia le bagna, si animano di un brulicare caotico. È il giorno nel quale più di un milione di volti e di sagome – oltre un sesto di chi abita queste zone – si riversano accanto a strade dimenticate in attesa di un’apparizione di uomini che su una bicicletta penano su pietre scomode e antiche, su e giù per alture che a vederle da lontano sembrano dolci e innocue, ma che sono tagliate da percorsi sbrigativi, fatti per risparmiare metri, incuranti della fatica che bisogna fare per raggiungere la cima.

 

Quel giorno tutto si ferma al passaggio del Giro delle Fiandre. E non potrebbe essere altrimenti, perché questa corsa “fa parte del patrimonio del popolo fiammingo come le processioni di Veurne e Bruges o la benedizione delle navi di Ostenda”, scriveva lo scrittore Paul Beving. Succedeva un tempo, succede ancor oggi. “Quando si percorrono queste zone ci si immerge un’atmosfera unica, qualcosa che non percepisci altrove. Si entra in una dimensione a sé, dove la corsa è solo una parte di una festa più grande: un atto d’amore per la bicicletta, per il ciclismo”, dice al Foglio Michele Bartoli, uno tra i migliori interpreti al mondo delle corse in linea tra gli anni Novanta e Duemila.

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Michele Bartoli durante il Giro delle Fiandre del 1996


  

Quel giorno, quello della Ronde, è la sublimazione di quel mese nel quale le Fiandre diventano il centro del mondo del ciclismo, è la festa somma di una settimana “di paesi che si riversano nelle strade e nelle piazze”, che si muovono tra “pranzi, birre e musica” e che la domenica vanno in processione “verso le strade che accoglieranno gli atleti, davanti ai maxischermo disseminati lungo il percorso. Una festa continua”. Un’atmosfera unica che vortica tutt’attorno ai corridori, ma che i corridori riescono solo a intuire. “Vedevamo tutto mentre passavamo in ricognizione, durante gli ultimi allenamenti sul percorso di gara. Scorrevamo tra i festeggiamenti senza davvero viverli. Non poteva essere altrimenti, in queste corse ci si giocava una buona parte della stagione, la concentrazione doveva essere massima”, racconta Bartoli. “Solo ora che ho smesso di correre e che in Belgio salgo per accompagnare i miei atleti – dopo il ritiro dalle competizioni il toscano è diventato preparatore atletico –, ho iniziato ad apprezzare anche il contesto”. Qualcosa che non si trova in nessun luogo al mondo, nemmeno nell’altra metà del Belgio, la Vallonia. “Sono un unico paese, ma c’è un modo estremamente diverso di rapportarsi al ciclismo. Nelle Ardenne questo sport è tifato, nelle Fiandre è amato. Gli spettatori ti trasmettono una passione unica, chi si affaccia a bordo strada diventa una cosa soltanto con la corsa. E chi la corre percepisce un calore indescrivibile”.

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Bartoli queste strade le ha iniziate a scoprire da dilettante. “Sono salito qui la prima volta per una breve corsa a tappe che in alcune frazioni percorreva le strade della Ronde. Ne ho vinto una, ho iniziato a capire che il pavé delle Fiandre poteva trasformarsi in qualcosa di più di un sogno o un desiderio”.

 

D’altra parte questi luoghi attraggono una strana tipologia di corridori, quelli che Karel Van Wijnendaele, che questa corsa l’inventò, definì flandrien: uomini forti, duri a morire, che “affrontano le strade di Fiandra costantemente all’attacco e continuando a pedalare fino a quando non raggiungono il traguardo stanchi morti”.

 

D’altra parte “queste strade non vengono scelte, scelgono. Afferrano l’anima e ti crescono dentro. Sono luoghi per eletti”, scrisse Pierre Chany. Il pavé fiammingo è un sentimento che ti esplode all’interno del cuore, una passione a cui non sai e non puoi resistere. Qualcosa che conosce bene anche Bartoli: “Chi sale quassù a correre lo fa perché lo vuole, perché sa di non poterne fare a meno. Non si pedala sul pavé tanto per pedalare, lo si fa per passione. Queste sono gare uniche, che non si trovano da nessun altra parte: devi essere motivato, sognare e desiderare di correrle”.

 

 

Il primo Giro delle Fiandre il pisano lo disputò nel 1994: quarantunesimo. Non ne ha perso uno sino a quando non si è ritirato dieci anni più tardi.

 

Il giorno dei giorni Bartoli lo ha vissuto invece il 7 aprile 1996.

 

Il cielo era grigio quel giorno. La pioggia minacciava di scendere mentre un venticello invernale lambiva i corridori che si muovevano tra asfalto e pietre. La corsa procedeva veloce dietro le maglie a cubetti della Mapei che facevano ritmo e corsa dura per Johan Museeuw, per preparagli il terreno per il terzo successo alla Ronde, il secondo consecutivo, quello che lo avrebbe fatto entrare nel ristretto circolo degli eletti del pavé fiammingo.

 

Mauro Bettin e Eric De Clerq vagavano in avanscoperta dalla mattina nella speranza che il gruppo si dimenticasse di loro. Invano. Sul Valkenberg il francese Cedric Vasseur partì sperando nel miracolo. Non arrivò. Ai piedi del Kapelmuur, penultimo muro della giornata, tutti i migliori erano a una decina di secondi dal fuggitivo. Tutti aspettavano il momento buono per mollare la compagnia. E il momento giusto è sempre uno: quando l’asfalto del centro di Geraardsbergen lascia il posto alle pietre, quando l’ascesa diventa più semplicemente Muur, il Muro per antonomasia. È lì che Bartoli decide di scattare, di affidarsi al vento, all’incertezza dell’azzardo. “Era l’azione che volevo fare, che avevo preparato. Non sapevo come sarebbe andata, quando si attacca lo si fa senza avere mai certezze, per scattare devi avere speranza. E gambe. L’unica cosa di cui avevo certezza era di stare bene: avevo voglia di giocarmela coi più forti”.

 

Alla ruota di Bartoli prova ad attaccarsi Andrei Tchmil, ma solo per un attimo. Molla pure lui. Il pisano prosegue, supera la chiesetta che segna la fine della salita e si getta verso la pianura. Supera indenne anche l’ultimo muro, il Bosberg, resistendo al tentativo di recupero del francese Laurent Brochard. Continua a spingere sui pedali, incurante di quello che accade alle sue spalle. Gira la testa solo quando imbocca il rettilineo finale e vede il vuoto. Il suo viso si rilassa, diventa un sorriso: felicità assoluta. Alza le braccia al cielo. “È difficile spiegare cosa si prova quando si è soli sotto lo striscione d’arrivo di una corsa qualsiasi, figuriamoci per una come il Giro delle Fiandre. Ti senti di aver raggiunto qualcosa di inarrivabile. La Ronde la vedevo da bambino e sul divano restavo fermo a immaginarmi quanto sarebbe stato bello vincerla. E quando mi sono ritrovato solo davanti a tutti ho visto realizzarsi tutti quei sogni. È il momento nel quale ti senti una specie di eroe, perché quando sei bambino i corridori sono questo, eroi”.

 

 

E anche se oggi il Muur e il Bosberg sono spariti dagli ultimi chilometri della Ronde, anche se la corsa si decide altrove e non più sul suo monumento più affascinante, nulla cambia davvero: “Per quanto possa cambiare il percorso il fascino di questa corsa rimane. Intatto”.

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