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Stati uniti

Dopo Joe Biden. Democratici allo specchio e l'esigenza di nuovi leader

Marco Bardazzi

Dopo la sconfitta elettorale, i liberal americani rimettono insieme i cocci, sotto la regia del solito Obama. L’enfasi su Rahm Emanuel, citatissimo, i governatori che aspettano il turno e il pericolo di un “Trump di sinistra”

Tra poco più di un mese, il 20 gennaio, Joe Biden lascerà la Casa Bianca a Donald Trump e per i democratici si aprirà una stagione ricca di incognite. Come è inevitabile, l’attenzione globale al momento è sul ritorno del presidente repubblicano e sulla sua squadra di governo. Ma c’è un dramma politico che si sta consumando nel partito che ha perso la presidenza ed entrambe le camere del Congresso, chiamato a reinventarsi e trovare nuovi leader e nuove idee negli stessi anni in cui Trump proverà a smantellare mezza Washington.


Con Biden va in pensione una generazione intera, quella di Nancy Pelosi, di Bill e Hillary Clinton e del focoso Bernie Sanders. Resterà Barack Obama a fare da ponte tra vecchio e nuovo, ma c’è un’enorme incertezza su cosa intendere per “nuovo” e sui tempi necessari a costruirlo. I più ottimisti, in casa dei democratici, sperano di essere già pronti a una prima rivincita tra due anni, nelle elezioni di midterm che metteranno in palio la Camera e un terzo dei seggi al Senato. Ma non mancano quelli che temono scenari analoghi al periodo dopo la fine della presidenza di Jimmy Carter, durata un solo mandato come quella di Biden, che aprì la porta a dodici anni di dominio dei repubblicani, prima dell’arrivo della nuova generazione di Bill Clinton e Al Gore. 


Lo scenario ancora peggiore però è un altro: che ai democratici tocchi la stessa sorte toccata ai repubblicani dopo la fine degli otto anni di presidenza di George W. Bush. Cioè il disfacimento del partito, la scomparsa definitiva del vecchio establishment, una deriva populista e un indebolimento che renda anche i democratici facile preda di un “Trump di sinistra” che si prenda il partito. Soprattutto se la Casa Bianca restasse nelle mani dei repubblicani anche nel 2028, magari con J. D. Vance come successore di Trump. E’ per questo che il dopo Biden è già cominciato, mentre l’anziano presidente deve ancora finire di fare le valigie. E si cominciano a vedere i primi movimenti da parte di chi aspira a gestire il vuoto di potere che si sta per aprire tra i democratici. 


A dare le carte è Obama, che pochi giorni fa ha fatto a Chicago il suo primo discorso post elettorale, nell’annuale Democracy Forum della fondazione che porta il suo nome. L’ex presidente ha parlato della forza del pluralismo, in un momento in cui sembra essere pochissimo di moda negli Stati Uniti, tirando non poche frecciate contro il mondo woke all’interno del suo partito, accusato di aver chiuso troppe porte e di aver allontanato troppi americani, spingendoli verso Trump. “I test di purezza – ha ammonito Obama – non sono una ricetta per il successo di lungo termine”


In quarantacinque minuti di discorso, in molti hanno teso le orecchie per sentire due parole, “Kamala Harris”, che però non sono state pronunciate. Non è necessariamente una presa di distanza dalla candidata sconfitta, ma al momento Harris non sembra al centro dei pensieri del Partito democratico. Per la vicepresidente può essere un segnale positivo, visto che buona parte dei suoi colleghi di partito la ritiene meno responsabile di Biden per la sconfitta. Ma come era già accaduto in passato a Hillary Clinton e John Kerry dopo aver fallito la loro corsa alla Casa Bianca, anche Harris per ora non viene vista come la leader dietro la quale riunirsi e ricominciare la battaglia

 

                                         


A chi tocca quindi guidare il processo? A Obama e agli obamiani. Uno tra tutti sta emergendo in queste settimane post voto e potrebbe diventare sempre più importante nel partito: Rahm Emanuel. L’ex sindaco di Chicago ed ex braccio destro di Obama alla Casa Bianca, uno che fa politica dagli anni delle campagne elettorali di Bill Clinton e che è stato anche deputato, a 65 anni è arrivato al momento di maturità della propria carriera proprio quando il partito sembra avere un disperato bisogno di lui. Emanuel sta finendo il proprio incarico come ambasciatore degli Stati Uniti in Giappone, dove Biden lo ha mandato in questi anni a monitorare gli scenari del Pacifico, la parte di mondo che più sta a cuore a Washington in questo momento storico. Nei giorni scorsi, di ritorno brevemente nella sua Chicago, ha rilasciato una raffica di interviste da cui si è capito che è prontissimo a buttarsi nella mischia. Si parla di lui come presidente del Partito democratico o come prossimo governatore dell’Illinois, in entrambi i casi ottimi trampolini di lancio per una corsa alla Casa Bianca nel 2028.


Noto per essere un duro, neppure gli ultimi anni nei panni del diplomatico sembrano aver stemperato la grinta di Emanuel, che nelle interviste ha affondato senza pietà il coltello nelle ferite dei democratici. “Il Partito democratico – ha detto – è diventato una casa degli specchi dove la gente ama ascoltare la propria voce mentre parliamo a noi stessi. Dobbiamo smettere di dire alla gente come deve vivere la propria vita, dobbiamo cominciare a stare zitti e provare ad ascoltare i nostri concittadini. Eravamo il partito anti establishment all’inizio della presidenza Obama, poi l’establishment siamo diventati noi e gli elettori ci hanno respinto”.   


Gli obamiani sembrano puntare su Emanuel e si cominciano già a vedere segni di convergenza su di lui, con Chicago che è tornata a essere la capitale dei democratici, anche grazie alla Obama Foundation che a breve inaugurerà la propria nuova sede in città. David Axelrod, l’ex capo delle strategie di Obama che alleva nuove generazioni di politici all’Università di Chicago, ha dettato la linea nel suo podcast. “Quando mi chiedono: ‘Cosa possiamo fare? Chi deve guidare il partito?’, la mia risposta è una sola: andiamo a riprendere Rahm Emanuel in Giappone e affidiamogli la presidenza dei democratici. E’ il combattente più capace di tutti nel partito, sa come affrontare questa fase e sarebbe spietato e senza paura nell’affrontare Trump”. 


L’obiettivo di breve termine degli obamiani è quello di salutare Biden il 20 gennaio, augurargli una serena vita da pensionato nella casa al mare in Delaware e cominciare a costruire una strategia per le elezioni di midterm del 2026, senza più Biden e Nancy Pelosi a imporre le scelte. Emanuel potrebbe essere il protagonista di questa fase, ma non è detto che abbia la forza per imporsi anche nelle presidenziali. Per il 2028 ci sono molti altri aspiranti che annusano l’aria e scaldano i muscoli, per decidere quando cominciare a muoversi. L’Amministrazione Trump II deve ancora avviarsi, ma loro hanno già iniziato a rafforzare i contatti con i referenti politici in New Hampshire, Iowa e South Carolina, gli stati dove si decidono le carriere presidenziali.


Kamala Harris fa parte di diritto di questo gruppo di aspiranti protagonisti del dopo Biden. Dopo la sconfitta del 5 novembre ha scelto il basso profilo, tornando a svolgere i compiti da vicepresidente e cominciando a organizzare il trasloco dal Naval Observatory, la residenza a Washington che dal 20 gennaio toccherà a Vance e alla sua famiglia. Il primo segnale delle proprie intenzioni  Harris lo darà decidendo dove andare a vivere. Se tornerà a Los Angeles, secondo molti osservatori potrebbe essere la conferma che si candiderà a governatrice della California nel 2026, quando scadrà il mandato di Gavin Newsom che non può essere rieletto. Harris potrebbe anche aspettare le elezioni del 2028 da semplice cittadina senza incarichi e poi provare di nuovo la corsa alla presidenza, ma potrebbe trovarsi in compagnia di un gruppo di potenti ex governatori alla ricerca di una nuova avventura politica. Il 3 novembre 2026 infatti, assieme al voto di midterm per il Congresso, si rinnovano ben 36 posti da governatore negli Stati Uniti e diversi pezzi da novanta dei democratici non possono ricandidarsi. Newsom è tra questi e non sono un segreto le sue ambizioni presidenziali. Così come non lo sono quelle di Gretchen Withmer, governatrice del Michigan con un’ampia visibilità nazionale, che non può correre per un terzo mandato


Insieme a loro due, ci sono altri due governatori che potrebbero farsi rieleggere nel 2026 ma sembrano già pronti anche a lanciarsi per la Casa Bianca. Uno è J.B. Pritzker, che potrebbe lasciare l’Illinois all’amico Emanuel, a meno che non diventino nemici nella sfida presidenziale. L’altro è Josh Shapiro, che ha la possibilità di fare un altro mandato in Pennsylvania e probabilmente lo farà, ma solo per poi candidarsi alla Casa Bianca da governatore in carica. 


Shapiro, insieme a Emanuel, è l’altro personaggio che sembra avere tutte le caratteristiche per provare a prendere la leadership del partito ed è a sua volta appoggiato da Obama. A conti fatti, lo ha avvantaggiato il non essere stato scelto da Kamala Harris come suo vice, un ruolo per il quale era considerato fino all’ultimo momento come il candidato più forte. A proposito di vice, chi è per ora completamente sparito dai radar della politica americana è Tim Walz, il compagno di avventura elettorale di Harris, che è tornato a fare il governatore del Minnesota. Nessuno sembra prenderlo seriamente in considerazione come un possibile esponente di punta del partito nei prossimi anni. 


Quindi: Harris, Emanuel, Newsom, Pritzker, Whitmer, Shapiro. Su chi altro può puntare il Partito democratico nei prossimi anni? C’è Alexandria Ocasio Cortez che ha appena compiuto i 35 anni necessari per candidarsi alla presidenza e ha l’occasione, nei prossimi anni, di mettersi in evidenza sui banchi dell’opposizione al Congresso contro Trump. Ma se l’indicatore più interessante sono i movimenti preliminari negli stati chiave, a partire da New Hampshire e Iowa, qui risultano attivi alcuni altri aspiranti leader di domani: i governatori Wes Moore del Maryland e Andy Beshear del Kentucky, il ministro dei Trasporti Pete Buttigieg e i senatori Cory Booker (New Jersey) e Amy Klobuchar (Minnesota). Il Partito democratico riparte da qui, senza un leader emergente ancora visibile e nel timore che compaia un “Trump di sinistra” che si prenda tutto.