Uno sforzo necessario
Per l'Europa è il momento di agire. Idee per affrontare una crisi senza precedenti
Più integrazione, più forza alle istituzioni Ue, una Next Generation 2.0: come affrontare una fase critica, acuita dall’elezione di Trump e dall’indebolimento della politica europea
All’inizio del decennio l’economia mondiale fu colpita da un insieme di shock negativi – pandemia, guerra, crisi energetica – che misero in discussione la tenuta del sistema e della sua governance. Le risposte dei paesi furono però in grado di arrestare la crisi prima e di frenare il rischio di frammentazione poi, e di riprendere, in qualche modo, la via della crescita. Le riposte riflettevano i sistemi istituzionali, così che la risposta degli Stati Uniti fu ovviamente diversa da quella europea, che rispose a sua volta lungo le linee che avevano caratterizzate la sua evoluzione dal momento della sua nascita: più integrazione e rafforzamento delle istituzioni comuni.
Fu così lanciato lo Sure, il meccanismo di protezione dei mercati del lavoro, finanziato da titoli europei, e il Next Generation Eu, molto più ambizioso e con l’obiettivo di rilanciare la crescita ma anche di cambiarne la sua natura rendendola più omogenea alla doppia transizione verde e digitale. L’obiettivo si doveva raggiungere tramite una dose massiccia di investimenti pubblici e di riforme strutturali finanziati da prestiti e da trasferimenti. Ciò chiamava in causa non solo i governi ma anche e idealmente soprattutto il settore privato, chiamato a investire nei settori trainanti e con finanza privata, nella convinzione che le politiche messe in atto avrebbero generato incentivi per gli investimenti delle imprese.
Gli Usa, invece, sotto l’Amministrazione Biden seguirono una via più diretta, quella di sostenere imprese, americane e no, che avessero investito in territorio americano, sotto l’egida dell’Inflation Reduction Act, sigla che nascondeva il significato moderatamente protezionistico delle misure. Il sistema globale dunque sembrava avviato verso una configurazione con più intervento pubblico sulle due sponde dell’Atlantico ma sempre in un quadro di collaborazione e comunque di fiducia nel valore dell’integrazione.
Oggi, dopo la vittoria di Trump questo quadro rischia di essere stravolto.
Trump ha annunciato da tempo che la sua amministrazione avrebbe seguito una filosofia decisamente più omogenea a un nazionalismo economico basato su due pilastri: protezione del mercato interno tramite barriere tariffarie, sostegno del reddito dei cittadini americani tramite la politica di bilancio. E’ facile prevedere che una simile politica avrebbe un impatto significativo sull’inflazione e sul commercio transatlantico.
In campagna elettorale Trump aveva annunciato una tariffa fino al 60 per cento sulle importazioni. Una cifra che se effettivamente introdotta porterebbe lo scompiglio sui mercati internazionali. Facile immaginare che si tratterebbe dell’avvio di una guerra commerciale in piena regola che coinvolgerebbe non solo i rapporti transatlantici, ma anche quelli con l’Asia e soprattutto con la Cina.
Ma cosa potrebbe o dovrebbe fare l’Europa per reagire in modo efficace? Già dai tempi delle crisi di inizio decennio l’Unione Europea ha avviato una serie di misure volte a garantire la sua “autonomia strategica”, concetto che riguarda le attività commerciali, di investimento e di sicurezza, militare e no, e che è disegnata avendo in mente un rapporto di collaborazione piuttosto che di contrasto con gli Usa. Soprattutto dovrebbe tenere conto che l’Europa è ben lontana dall’aver colmato il gap di competitività e crescita nei confronti degli Usa, come chiaramente messo in luce dal Rapporto Draghi.
Colmare questo gap richiede uno sforzo finanziario e tecnologico di dimensioni senza precedenti, dell’ordine di svariate centinaia di miliardi aggiuntivi all’anno. Uno sforzo che, ovviamente, richiede il massimo impegno collettivo da parte dei paesi dell’Unione e non la semplice somma degli sforzi nazionali. Quindi un impegno coordinato e continuativo.
La venuta di Trump rende ancora più difficile e più necessario questo sforzo. Oltre agli impegni economici, il nuovo presidente americano ha ripetutamente affermato che i paesi europei devono accrescere le spese militari a fronte di una riduzione degli impegni degli Usa. Si tratta, a ben vedere, del rigetto del principio su cui era stato fondato il modello di governance globale nato a Bretton Woods. Ma c’è un aspetto positivo. Con Trump viene cancellato ogni dubbio residuo sulla necessità per l’Europa di dotarsi di una propria autonomia strategica.
Un ulteriore ma non ultimo tema riguarda le politiche per la lotta al cambiamento climatico. Qui le differenze tra le due politiche sono note da tempo. La linea dell’Unione Europea è da tempo fortemente incentrata su una politica di lotta al cambiamento climatico che coinvolge l’intera economia. Le istituzioni, a partire dalla Commissione europea passando per la Bce, hanno assunto una posizione di primo piano per l’impegno in questo senso. Al contrario la politica Usa si è differenziata con il grande peso assegnato alle politiche dei singoli stati.
Oggi la transizione verde soffre un momento di incertezza. Il confronto tra risultati attesi e costi di investimento indebolisce l’entusiasmo degli investitori e rallenta la crescita del consumo privato. Questo profilo dinamico è quasi un percorso obbligato. Gli investimenti nell’economia verde producono risultati solo nel medio periodo, quando auspicabilmente l’innovazione verde comincerà a dare i suoi frutti e la sostituzione del capitale “brown” si avvierà verso il completamento. Nel frattempo però la nuova amministrazione Usa potrebbe accelerare il suo disimpegno dagli accordi climatici.
Per uno strano gioco del destino (?) il momento in cui gli Stati Uniti cambiano leadership viene meno, almeno per ora, la leadership del più importante paese europeo. Questo getta un’ombra sulla effettiva capacità degli europei di rispondere alla sfida di Trump. Costruire un meccanismo di autonomia strategica non richiede solo risorse finanziarie, ma anche tecnologiche, di capitale umano, di capacità di gestione, manageriali. Richiede un cambiamento radicale del sistema di incentivi per il settore privato, una Next Generation 2.0. E questo richiede forte leadership da parte dei governi europei, che devono agire di concerto. Richiede produrre “beni pubblici europei”. Questa leadership sembra essere più lontana. In un quadro simile, la capacità di investire degli europei continuerà a indebolirsi, a perdere terreno nei confronti degli Usa, a indirizzare verso gli Usa molto del notevole ammontare di risparmio che si forma in Europa e che i mercati finanziari europei faticano a indirizzare verso l’industria europea.
L’Europa, com’è noto, ha sempre reagito alle sue crisi accrescendo l’integrazione e la forza delle sue istituzioni. Oggi l’Europa deve affrontare una crisi senza precedenti. Cosa fare per evitarla è in gran parte noto. Come farlo, meno. Nel frattempo Il duplice shock simmetrico – l’elezione di Trump e l’indebolimento della politica europea – potrebbe produrre conseguenze di più lungo periodo sulla governabilità del sistema globale. Con il rafforzamento della tendenza alla frammentazione e l’accrescersi delle tensioni sul fronte della sicurezza.