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l'editoriale del direttore

Il motore che muove l'Iran è l'islamismo, non la geopolitica

Claudio Cerasa

Da Rushdie alle ragazze di Teheran. Perché osservare l'Iran senza mettere a fuoco il vero motore delle sue azioni significa insultare chi ogni giorno prova a resistere al regime degli ayatollah (non solo Israele)

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Nelle analisi geopolitiche degli ultimi giorni, la questione Iran viene affrontata spesso da molti osservatori con lo sguardo freddo di chi prova a descrivere il paese degli ayatollah come se questo fosse un regime come gli altri, una semplice e ordinaria dittatura che, come tante altre, lavora per raggiungere un fine che condivide in fondo con molti altri paesi sparpagliati nel mondo: destabilizzare a proprio favore alcuni delicati – e un tempo consolidati – equilibri mondiali.

L’Iran, naturalmente, è anche questo ma parlare di Iran senza parlare di ciò che si trova all’interno del suo motore, di ciò che guida le sue azioni, significa voler semplicemente chiudere gli occhi rispetto a ciò che, nel contesto mondiale e non solo in quello mediorientale, rappresenta la repubblica degli ayatollah e dei pasdaran: una versione in purezza di un paese che sceglie di farsi guidare da una forma violenta di islamismo integralista. L’odio che da anni, da un anno in particolare, spinge l’Iran a fare tutto il necessario per provare a cancellare Israele dalle mappe geografiche – e per provare a contrastare in giro per il mondo gli alleati dello stato ebraico – è un odio che non nasce da una fredda rivalità geopolitica, da una volontà di voler contrastare nella propria area di riferimento un’influenza delle società aperte che si sentono rappresentate da Israele. Ma è un odio il cui motore va individuato all’interno di una parola che in queste ore viene con poca frequenza associata all’azione dell’Iran: l’antisemitismo. Dietro al finanziamento dei terroristi di Hezbollah che stazionano da anni al confine nord di Israele, dietro all’assalto dei miliziani degli houthi alle navi mercantili internazionali dirette verso Israele, dietro al sostegno incondizionato offerto in questi anni ai terroristi di Hamas per destabilizzare Israele, dietro agli attacchi alle basi americane in Iraq e in Siria portati avanti dalle milizie locali filoiraniane, vi è un principio che venne scritto nero su bianco dall’ayatollah Ruhollah Khomeini nel suo libro “Il governo islamico” che ha influenzato numerosi leader iraniani. 

Compreso l’attuale leader supremo, Ali Khamenei: “Fin dall’inizio il movimento storico dell’islam ha dovuto lottare con gli ebrei, perché sono stati loro che per primi hanno lanciato la propaganda anti islamica e si sono impegnati in vari stratagemmi, e come potete vedere, questa attività continua fino ai giorni nostri”. Nel 1947, molti anni prima della rivoluzione islamica che ha travolto l’Iran nel 1979, la nascita dello stato ebraico venne accolta con favore dall’allora  dittatore iraniano Mohammad Reza Shah Pahlavi. Pahlavi vedeva Israele come un alleato naturale contro Egitto e Siria e il 6 marzo 1950, quando venne addirittura ufficializzato il riconoscimento di Israele, da parte dell’Iran, l’ambasciatore iraniano all’Onu, Nasrollah Entezam, disse all’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Abba Eban, che l’Iran vedeva Israele come una nazione legittima e un partner in medio oriente. Da quando l’Iran è diventata una repubblica islamica, e da quando ha scelto di passare alla stagione  dell’estremismo religioso, la guerra contro l’esistenza dello stato ebraico è diventata parte centrale della sua agenda e il suo antisemitismo si è manifestato in modi diversi e continui.

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L’Iran, negli anni degli ayatollah, ha incoraggiato gli attacchi terroristici dei leader integralisti palestinesi (gli attentatori suicidi della Seconda intifada, nel 2005, hanno causato la morte di circa 1.300 israeliani). Dal 2005 in poi, l’Iran ha posizionato dozzine di agenti militari in cinque paesi attorno a Israele: Hezbollah in Libano, Hamas e il Jihad islamico a Gaza e in Siria, gli houthi nello Yemen e diversi altri terroristi tra Iraq e Bahrein. Il motore è sempre lo stesso (l’odio contro gli ebrei). Le modalità di azione sono sempre le stesse (promuovere l’intifada mondiale). E l’errore delle democrazie liberali è sempre quello: fingere, prima di tutto a se stessi, che ciò che spinge l’Iran a colpire direttamente e indirettamente gli alleati di Israele sia qualcosa che ha a che fare solo ed esclusivamente con la volontà di esercitare un’egemonia sulla regione. E così, per evitare di parlare del tema, fingiamo di non vedere quanti sono gli infedeli che ogni anno vengono giustiziati dall’Iran. E così, per evitare di parlare del tema, fingiamo di non vedere quanti sono gli omosessuali che ogni anno vengono giustiziati in Iran. E così, per evitare di parlare del tema, fingiamo di non vedere quanto la proliferazione dell’integralismo islamista sia pericolosa non solo per chi difende i propri confini e il proprio popolo, come Israele, ma anche per chi sceglie di denunciarlo nel mondo.

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I casi sono infiniti (pensate alla storia drammatica della ventiduenne Mahsa Amini, deceduta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale dell’Iran a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo). Ma un caso attuale che ci può aiutare a comprendere quanto la minaccia iraniana non riguardi solo i missili e i droni sparati su Israele è quello dello scrittore Salman Rushdie, che dopo aver scritto un famoso romanzo, “I versi satanici”, ricevette una condanna a morte (fatwa) dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, che giudicò i testi di Rushdie lesivi della dignità della religione islamica e del suo profeta. Per anni Rushdie ha vissuto con la fatwa sopra la propria testa, fino a quando il 12 agosto del 2022 un uomo lo ha accoltellato a un evento pubblico a Chautauqua, nello stato di New York, riducendolo in fin di vita (pochi mesi dopo l’Iran premierà l’assalitore ringraziandolo “sinceramente per la sua azione che mirava a portare a termine la storica fatwa dell’imam Khomeini”). Ieri l’ultimo libro di Rushdie (“Coltello”) è uscito anche in Italia. Suzanne Moore, giornalista del Telegraph, dopo averlo letto ha offerto uno spunto di riflessione prezioso: “Negare la minaccia dell’Islam fondamentalista è un insulto al coraggio di Salman Rushdie e alla libertà di espressione che ha cercato di difendere”. Chi oggi osserva l’evoluzione del conflitto diretto (via droni) e indiretto (via Hamas) tra l’Iran e Israele senza mettere a fuoco il motore dell’odio veicolato da un’interpretazione fondamentalista dell’islam politico non sta solo insultando il coraggio di Rushdie. Ma sta facendo di tutto per far sì che l’Iran  degli ayatollah possa continuare a tenere  in ostaggio quella popolazione che, esattamente come succede con i palestinesi innocenti a Gaza che si trovano sotto lo schiaffo di Hamas, altro non chiede di essere liberata da chi ha trasformato l’odio nei confronti degli infedeli (e degli ebrei) in un motore utile per poter calpestare ogni giorno la parola libertà. Non è la geopolitica ma è l’islamismo, bellezza.

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