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L'editoriale dell'elefantino

Israele nella bufera identitaria

Giuliano Ferrara

L’interesse dello stato e l’istinto di sopravvivenza di un popolo. Hamas con la sua furia negazionista ha fatto rinascere non la questione palestinese ma uno stato-guarnigione disposto a tutto perché non ha niente da perdere

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Molti sospettano che il pericolo di un allargamento della guerra da Gaza all’intera regione mediorientale, compreso l’Iran, non è affatto scongiurato. Alcuni pensano che non sia un rischio imminente perché questa deflagrazione, che riproporrebbe come un incubo la prospettiva di un conflitto generalizzato tra i grandi e decisivi attori del mondo, come la Cina, la Russia, gli Stati Uniti e il loro circuito di alleanze, non è per il momento nell’interesse né degli Ayatollah né di Israele. Si resta appesi un paio di volte a settimana ai lunghi, brodosi, insidiosi e lucidi discorsi del capo Hezbollah, Nazrallah, per saggiare la situazione e valutare il futuro militare e politico di un’area incandescente, in preda a un grande incendio, un complesso di forze fazioni e paesi che vive in un sentimento di odio reciproco senza apparente riscatto sul piano della diplomazia, degli interessi di stato. Come cerco di dire tra poco, l’interesse di uno stato è una cosa, l’istinto di sopravvivenza di un popolo è un’altra cosa.

C’è chi cerca di cavarsi d’impiccio raccontandosi la storia di Netanyahu uomo nero della favola. Ha messo insieme un governo che incorpora una destra estrema e fanatica, si citano a filastrocca le enormità suprematiste di Ben Gvir e di Smotrich, i due ministri di punta degli estremisti al potere, e si mette in discussione la scelta dell’autodifesa totale, fino alla distruzione del nemico, con i suoi altissimi costi umanitari, la sofferenza di un popolo che si presenta disperso diviso e oppresso dalla macchina bellica di Tsahal, e spicca in tutto questo la perdita di legittimità di Israele nel mondo fino alla riproposizione come parola d’ordine riverita e accettata della sua scomparsa dal fiume al mare, intesa come liberazione della Palestina dagli ebrei colonialisti. Può essere che la verità sia un’altra, molto più scomoda, e che il rischio di degenerazione e allargamento del conflitto stia proprio in questa verità. 

 

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Il cuore della crisi, della grande crisi, è nella progressiva perdita di fiducia di Israele nella possibilità di convivere con i suoi vicini palestinesi. Questa perdita di fiducia, che ha motivazioni fortissime, è la vera tragedia sia per Israele sia per i palestinesi, è la vera minaccia oggettiva a una composizione dei conflitti, è la porta aperta su un allargamento del teatro di guerra. Non è una questione di disponibilità generica all’accordo e al riconoscimento dell’altro, è una questione di vita o morte, o almeno così viene percepita. L’accordo con gli stati arabi e con le loro teocrazie e oligarchie modernizzanti l’Israele di Netanyahu l’ha fatto, sono gli accordi detti di Abramo. Una strategia o una tendenza che passa per la negazione di una autonoma e decisiva questione palestinese e il cui risvolto è il tentativo di contenimento e difesa rispetto all’Iran e all’islamizzazione del movimento che fu di Arafat e Habbash. Rabin diceva che la pace si fa con il nemico, e la sua lezione è servita paradossalmente, dopo la caduta della speranza degli accordi di Oslo, a fondare un progetto che dura da quindici anni, tanti quanti sono gli anni di Bibi al potere. L’aggressore emerso con l’esplosione ferina nel pogrom antiebraico del 7 ottobre, però, è un’altra cosa da un nemico con il quale si fa la guerra e la pace. Diverso dai nemici del 1948, dalla coalizione negazionista che fu sconfitta nella campagna per l’indipendenza dello Stato d’Israele, e da quelli del 1967 o del 1973, le guerre dei Sei giorni e dello Yom Kippur. 

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Gira un video significativo. Un’assemblea di soldati israeliani reduci dal fronte di Gaza esprime cantando un fervore popolare che incute rispetto e insieme fa paura. La canzone è Am Yisrael Chai, è un motivo musicale secondo solo all’inno nazionale del paese, che si intona come segno di amore collettivo nella sopravvivenza gioiosa del popolo ebraico. Nasce a Begen Belsen, in un campo di concentramento, e viene codificato nel 1965 durante una manifestazione di solidarietà con Israele a New York. Ha la forza simbolica, insieme emozionante e fatale, di una comunità in armi che si affida per necessità solo a sé stessa. Hamas con la sua furia negazionista e la sua accanita e belluina rabbia contro gli ebrei ha fatto rinascere non già la questione palestinese ma uno stato-guarnigione disposto a tutto perché non ha niente da perdere.

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