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Verso il ballottaggio

Turco si nasce. Quanto pesa l’etnia nella corsa al potere di Kiliçdaroglu

Siegmund Ginzberg

Il coraggioso “coming out” del candidato presidente: è della minoranza alevita. Nella mancata vittoria al primo turno dello sfidante di Erdogan ha contato, più di molti temi politici, il voto di chi non lo considera abbastanza turco

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Da bambino ero turco. O almeno ero convinto di esserlo. A scuola tutte le mattine prima delle lezioni ci si riuniva in palestra a salutare sull’attenti la bandiera e a intonare in coro l’inno nazionale e il giuramento dello studente. “Sono turco. Sono giusto. Sono diligente. Proteggo i più deboli, rispetto i superiori. Amo il mio paese e la mia nazione più di me stesso”, dicevano le parole. Venivano scandite con enfasi, anzi urlate. Si fa ancora, in ogni ordine di scuola in Turchia. Io, a dirla tutta, un po’ imbrogliavo. Sono stonatissimo. Non ho mai saputo cantare. E non conoscevo tutte le parole. In casa non me le avevano insegnate. Rimediavo muovendo la bocca senza emettere suoni. I compagni di scuola mi chiedevano cos’ero, visto che non gli sembravo del tutto turco. Parlavo e pensavo in turco. Ma altre cose non quadravano, a cominciare da nome e cognome. A casa i miei parlavano della zia che viveva in Italia, quella che un giorno avremmo raggiunto a Milano. Rispondevo che ero italiano. Arrivai in Italia che non conoscevo una parola di italiano. Anche in Italia a scuola i compagni mi chiedevano cos’ero. Rispondevo che ero turco. E quelli di rimando, ma affettuosamente: Mamma li turchi! Avrei potuto dirgli che ero ebreo. Erano gli anni 50, non c’era xenofobia. Avevo passato i vent’anni quando divenni italiano. Non ne avevo il diritto, né per ius soli, né per ius sanguinis, né per ius scholae. Avrei dovuto fare il militare in Turchia. Ma non mi andava di servire in un esercito buono solo a fare colpi di stato, a reprimere minoranze, sinistra e dissenso, e in cui, al pari di ebrei, curdi e aleviti, non avrei potuto mai ambire ad altro che pulire i cessi. Mi fu concessa la cittadinanza italiana. A due condizioni: che comunicassi la cosa alle autorità turche e che rinunciassi alla protezione diplomatica italiana in Turchia. Saggezza pratica. Detto fatto. L’Ambasciata di Turchia mi comunicò che ero stato radiato dalla cittadinanza turca. 

 

Giunto a tarda età, sono confuso. Non capisco più quale sia la mia etnia. Di razza per fortuna non si parla più. Sento dire che ci sarebbe un’etnia italiana. Ma non sono sicuro di farne parte. Peggio: non so bene quali siano i requisiti per farne parte. So solo che sono italiano. Senza dubbio, senza se e senza ma. E che nel divenire italiano ho giurato di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello stato. Non ho giurato fedeltà a questa o quella etnia, né, tanto meno, fedeltà a questo o quel governo, o partito, o capo, o padrino. “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza”, recita l’articolo 22 della Costituzione italiana.   Il 28 giugno si terrà il secondo turno delle presidenziali in Turchia. L’esito del primo turno ha riproposto all’attenzione una questione assai più intricata di quella dell’italianità: la questione della “turchicità”. È una brutta parola. Tanto che, dal 2008, l’articolo 301 del Codice penale turco, il quale prevedeva pesanti condanne in caso di vilipendio della “turchicità”, è stato emendato, sostituendovi il reato di “insulto alla nazione turca”. Erano altri tempi: allora ancora si discuteva di possibile adesione della Turchia all’Unione europea. Tra le ragioni per cui Kemal Kiliçdaroglu non è riuscito al primo turno delle presidenziali, il 14 maggio, a rompere il muro del sostegno a Recep Tayyip Erdogan c’è un suo coraggioso coming out. Non su una questione di preferenze sessuali, ma su questione di etnia. C’è chi non lo considera abbastanza turco. Malgrado sia il leader del Chp (Cumhuriyet Halk Partisi, il Partito repubblicano del popolo), che era il partito di Atatürk, quindi un partito che più turco di così non si può. “Non ho votato per lui perché non è turco”, la risposta di molti agli exit polls. Kiliçdaroglu è alevita, come lo è un turco su cinque. Proviene da una minoranza musulmana più eclettica e più aperta, con riti propri e diversi, con propri ministri del culto (i dede) e quindi per questo sospetta alla maggioranza sunnita. 

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Certo non è l’unica ragione. E forse nemmeno la principale. Ma probabilmente è quella che ha controbilanciato le molte altre ragioni che parevano annunciare la fine del monopolio ultra ventennale di Erdogan. Su un piatto della bilancia c’era la cipolla esibita nel video elettorale girato nella cucina di Kiliçdaroglu, il cui prezzo è decuplicato causa inflazione. E una crisi economica apparentemente senza via d’uscita, e le case accartocciatesi nel terremoto come se fossero di cartapesta, simbolo della voracità dei palazzinari amici degli amici di Erdogan, e la stanchezza per il ventennio. Ma sull’altro piatto era stata gettata una spada di Brenno, una zavorra decisiva: il deficit etnico di Kiliçdaroglu, che agli occhi degli elettori conservatori spiegava perché lo sfidante piacesse all’occidente, all’America e all’Europa. Con la turchicità non si scherza. Si sapeva che Kiliçdaroglu è alevita. Si sussurrava. Gli avversari lo gridavano anche. Ma una cosa è ammettere un possibile handicap politico, un’altra menarne vanto. Solo pochi giorni dopo aver annunciato la propria candidatura Kiliçdaroglu aveva deciso di rompere un tabù, di dichiarare apertamente la sua appartenenza etnica. Era stato percepito come una sfida. Una sfida alla tradizione per cui certe cose non si dicono. E anche come una dichiarazione di simpatia per le rivendicazioni di eguaglianza e pieno diritto di cittadinanza di altre più ingombranti minoranze, e nello specifico quella curda, o i profughi dalla Siria. Era una specie di coming out. Il video in cui faceva la dichiarazione aveva avuto oltre 100 milioni di click. Gli è valso il voto dei curdi e di altre minoranze, che già appoggiavano la sua candidatura. Ma gli è anche nuociuto. L’ala destra del suo schieramento aveva cominciato a mettere in dubbio la sua “eleggibilità”. 

 

Con il suo outing si metteva dalla parte degli emarginati, dei perseguitati, dei cancellati dalla storia turca. Suonava come intenzione di rimediare agli antichi torti, antichi o recenti, come i massacri degli armeni, o l’espulsione dei greci. Apriti il cielo a dire che si trattò di veri e propri genocidi. In Turchia è tuttora proibito anche solo parlarne. Gli aleviti erano stati perseguitati sin dal 1500, quando il sultano Selim I ne fece massacrare diverse decine di migliaia perché sospetti, in quanto musulmani eterodossi, di parteggiare per lo Scià dell’Iran Safavide, sciita, anziché per il sultano dei turchi ottomani, sunniti. Erdogan, guarda caso, ha fatto intitolare il più nuovo dei ponti sul Bosforo, quello quasi all’imbocco del Mar Nero, proprio al sultano Selim, detto Yavuz, il Risoluto. La giovane Repubblica turca si era macchiata di un orrendo eccidio di aleviti curdi, che formavano la stragrande maggioranza della popolazione a Dersim, città natale di Kiliçdaroglu. Atatürk aveva rimediato cacciando dal suo partito gli ultra-nazionalisti. C’erano stati massacri di aleviti fino agli anni 90 del secolo scorso. Un sondaggio del 2019 rilevò che il 59 per cento degli aleviti si sentivano “stranieri” in Turchia e il 66 per cento lamentavano di essere considerati “cittadini di serie B”. Non sta scritto da nessuna parte, ma se uno non è turco turco sa che non diventerà mai giudice, e nemmeno generale nelle forze armate, sarà penalizzato nei concorsi pubblici, tutt’al più gli faranno fare il sindaco, o il deputato, possibilmente di opposizione. Ci sono cose che ai sondaggi non si confessano. Era già un fatto enorme che potesse competere, anzi fosse addirittura dato ad un certo punto come possibile vincitore.

 

In vista del ballottaggio di domenica 28, Kiliçdaroglu ha compiuto una brusca sterzata. Si è allineato clamorosamente alle posizioni di chi vorrebbe cacciare i 3 milioni e mezzo di profughi dalla Siria sconvolta dalla guerra civile. “Erdogan, non hai protetto i nostri confini. Appena eletto, io invece rimanderò a casa tutti i rifugiati. Punto”, ha dichiarato, rivolgendosi al suo rivale. La ragione dell’inversione a U è evidente: per fermare Erdogan sul filo di lana gli occorrerebbero quel 5,9 per cento di voti andati al terzo in classifica al primo turno Sinan Ogan. L’esponente dell’Alleanza Atavica (alleanza atavica dei “veri turchi” beninteso) si era detto disposto a negoziare il suo peso elettorale, piccolo ma decisivo. Ponendo però pesanti pregiudiziali. Aveva fatto sapere che mai e poi mai appoggerà una coalizione che faccia concessioni agli armeni, o che includa i “terroristi” curdi, e che mai e poi mai mollerà sulla promessa di espulsione di tutti gli immigrati e rifugiati siriani, che sono in maggioranza di etnia araba e non turca, di confessione sciita o alevita, non sunnita. È un po’ come se Elly Schlein, all’improvviso, per battere la Meloni, sposasse la linea dura contro i migranti di Salvini. La svolta in extremis, anziché aprirgli nuovi margini, potrebbe rivelarsi catastrofica per Kiliçdaroglu. Fargli perdere consensi tra chi l’ha votato al primo turno, anziché procurargli nuovi voti.

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L’assurdo, in questa saga etnica è che Kiliçdaroglu è turco, turchissimo. È a rigore più turco di Sinan Ogan, che è azero, quindi di origini caucasiche e iraniche, non anatoliche. E questo spiegherebbe il suo estremismo ultrà, il suo zelo e fanatismo da outsider, da neofita. È sempre stato così. I più feroci inquisitori nella Spagna del 1600 erano ebrei convertiti. Le minoranze etniche “liberate” dai nazisti erano più fanatiche dei tedeschi doc. I più convinti anticomunisti erano ex comunisti. Kiliçdaroglu certo è molto più vicino di quanto siano gli islamici del partito di Erdogan allo spirito laico della Repubblica di Atatürk (che proibì alle donne di portare il velo e ai religiosi di tutte le confessioni di indossare in pubblico l’abito talare – anche l’allora nunzio apostolico a Istanbul, Angelo Roncalli, nelle foto dell’epoca è sempre ritratto in borghese). Quel che distingue Kiliçdaroglu dai suoi avversari politici non è il patriottismo. E nemmeno il nazionalismo. È il nazionalismo avvilito a chiusura etnica e religiosa. “Il patriottismo è amare la propria gente, il nazionalismo è odiare gli altri” è il modo in cui la mette il protagonista, un partigiano polacco, ne L’educazione europea, il primo romanzo del profugo lituano, polacco ed ebreo, naturalizzato francese, Roman Kacew, in arte Romain Gary.

 

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Confessare di essere aleviti, come ha fatto Kiliçdaroglu, voleva dire tirarsi contro la diffidenza della maggioranza degli abitanti nelle province dell’Anatolia profonda. Aleviti si nasce, non si diventa. E questa è un’aggravante, come per i nazisti era un’aggravante essere nati ebrei. È un po’ come se ora a governare Israele si candidasse un ebreo riformato, reprobo agli occhi degli ebrei ultrà, o un arabo israeliano, o a governare l’Italia si candidasse un immigrato dall’altra sponda del Mediterraneo (alla faccia dei cultori dell’etnia italica, Roma antica aveva avuto grandi imperatori provenienti dal Nordafrica e dalla Spagna). Oppure sarebbe come al Cremlino si candidasse un ucraino (in verità è successo con Kruscev, ma erano altri tempi, prima di lui c’era addirittura un georgiano!). O come se alla Casa Bianca si candidasse uno che anziché invocare le benedizioni di Dio sull’America si dichiarasse non credente. A Biden già aveva creato qualche difficoltà l’essere non protestante ma cattolico, come a suo tempo le aveva create a Kennedy. A Obama non potevano contestare apertamente che fosse un po’ nero, anzi “abbronzato” come disse un politico italiano. Ma cercarono di invalidare la sua elezione con l’argomento che era nato alle Hawaii, in mezzo al Pacifico, e non in uno degli stati “contigui” del Continente, come dice la Costituzione americana. Vero, a rigore non sono ostacoli insormontabili. Ma si tratta di difficoltà ulteriori, che possono rivelarsi decisive quando gli schieramenti contrapposti finiscono col trovarsi in equilibrio.

 

Ancora una volta è impressionante anche solo dare un’occhiata ai risultati di questa prima tornata di elezioni presidenziali e parlamentari in Turchia. A Kiliçdaroglu e alla sua coalizione di 13 partiti sono andate tutte le province costiere e tutte le grandi città, quindi anche le province della capitale Ankara e dintorni, più quelle dell’Anatolia sud orientale, dove prevalgono curdi e siriani. A Erdogan tutto il resto. L’effetto visivo è quasi identico a quello delle elezioni americane, dove il voto per i democratici, in genere rappresentato in blu, contea per contea fa man bassa sulla East Coast, in California e a New York e in tutte le grandi città. E sembra annegare in un mare di rosso (il colore in cui si rappresenta tradizionalmente il voto repubblicano). Le campagne votano a destra. Le città a sinistra. La vittoria per gli uni o per gli altri si decide al confine. A seconda ovviamente del sistema elettorale. Hillary Clinton aveva avuto più voti di Trump, ma era stata sconfitta dal meccanismo elettorale; Biden, si ricorderà, ci aveva tenuti col fiato sospeso. Se vince ancora una volta, come ormai danno per certo tutti gli osservatori, anche quelli che speravano altrimenti, e soprattutto come indicano i numeri, che per definizione sono neutrali ma inesorabili, Erdogan potrà vantare anche un altro vantaggio: che non gli si potrà più dare del dittatore, per quante ne combini, senza sentirsi rispondere che in questa ultima tornata elettorale, quasi era stato scalzato, che la sua non era stata un’elezione plebiscitaria, e che quindi è stato eletto democraticamente. 

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