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Nel terremoto fra Turchia e Siria per i siriani è tutto più complicato

Paola Peduzzi e Luca Gambardella

“Putin e Assad possono aiutarci non bombardandoci”, ci dicono i White Helmets. Guerra, pandemia, fame, colera e ora due scosse violentissime. Dalle missioni militari oltre confine di Erdogan in chiave anti curda a una indifferenza ormai decennale da parte dell’occidente, che in questo pezzo di terra tremante ha deciso di chiudere gli occhi

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Piove e nevica sulle macerie del sud della Turchia e del nord della Siria dopo due scosse di terremoto violentissime, a poche ore l’una dall’altra, la prima mentre molti ancora dormivano, la seconda quando già si contavano i morti e i feriti, e si scavava. Negli occhi abbiamo ormai da un anno i palazzi distrutti dell’Ucraina colpiti dal cielo dagli aerei russi, moncherini di condomini che restano solo con i piani bassi: ieri, in questo pezzo di terra siriano martoriato da fame, fughe, guerra, violenza e la nostra perenne distrazione, le case si sono sbriciolate dal basso, afflosciandosi a velocità inconcepibile. Si stimano circa tre mila morti e 10 mila feriti, ma sappiamo che le vittime saranno molte di più e forse non conosceremo mai il numero con esattezza, perché c’è un flusso di gente in fuga che si sposta, si ferma e riparte disperato, in cerca di una sicurezza e di una prospettiva che qui, da entrambi i lati del confine turco-siriano, non si trovano.

 

Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha messo in moto la macchina degli aiuti, ma in Siria le cose sono più complicate: “Guerra, pandemia, fame, colera e ora un terremoto catastrofico – dice al Foglio Monir Mustafa, vicedirettore del Syria Civil Defence - White Helmets, il gruppo di volontari che opera nel nord-ovest del paese, la regione martoriata dal regime di Bashar el Assad e dai suoi alleati – Qui le infrastrutture sono così fragili a causa dei bombardamenti della Russia e del regime negli ultimi anni. Sono strutture che non reggono in caso di terremoto, per questo da noi c’è la situazione peggiore di tutte. C’è appena stata una  tempesta di neve, così ora le persone non possono stare né dentro né fuori”. Gli aiuti stanno arrivando da tutti, dall’America, dalla Nato e dall’Unione europea, ma anche dai greci che sono mezzi in guerra con la Turchia, dagli israeliani che sono disposti a collaborare con la Siria, cosa invero rara, e naturalmente dalla Russia che qui ha molteplici interessi e soprattutto complicità, come dimostra la necessità di un Consiglio di sicurezza dell’Onu d’emergenza per provare a sbloccare i corridoi umanitari per il nord-ovest siriano, cosiddetto “ribelle”, e quindi isolato da quegli assedi mortiferi che Vladimir Putin ha poi riproposto anche in Ucraina.

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Quando si scava al gelo e si sentono urla e suoni dei cellulari dalle macerie ma non si riesce a individuare  precisamente da dove vengano; quando al terremoto si aggiungono le strutture pericolanti e un’epidemia di colera (a Idlib, in Siria, ci sono 38  mila casi); quando il regime siriano è più interessato a mandare blindati nel sud, dove ci sono proteste anti Assad, piuttosto che nel nord devastato ma  non assoggettato, non si guarda in faccia a nessuno. “Abbiamo bisogno di aiuti umanitari urgenti – ribadisce Mustafa –   medicine, cibo, strumenti per il salvataggio e un riparo adeguato per chi è al freddo. Chiediamo anche alle organizzazioni internazionali che si occupano di aiuti umanitari di venirci in soccorso, poiché le nostre squadre non sono in grado di rispondere al disastro a causa delle capacità limitate”. Il limite è stato imposto dall’alleanza feroce di Putin e di Assad, dalle missioni militari oltreconfine di Erdogan in chiave anti curda, e da una indifferenza ormai decennale da parte dell’occidente, che in questo pezzo di terra tremante ha deciso di chiudere gli occhi, dando prova di un realismo cinico che raramente si è visto in questa sua brutalità. “Il regime di Assad e la Russia sono i principali responsabili delle sofferenze” dei siriani, dice Mustafa: “L’unico aiuto che possono darci è che non ci bombardino e ribombardino, almeno questa volta”. 

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