Nasser Nasser, AP Photo, via LaPresse 

Tra giornalismo e finzione

Iran e Israele: nemici in terra e in fiction

Siegmund Ginzberg

La guerra e lo spionaggio tra Teheran e Tel Aviv raccontati dalle serie tv. Entrambe riescono ad avere uno sguardo umano sui peggiori avversari. Due narrazioni che riescono ad anticipare e prevedere una realtà difficile da descrivere

Mi capitò, qualche anno fa, di trovarmi seduto a cena di fronte all’ambasciatore israeliano. Gli chiesi perché Israele continuava a corteggiare i sauditi, o l’emiro del Qatar, quello che – lo si sa oggi – comprava eurodeputati e finanziava i talebani in Afghanistan, anziché trovare un modus convivendi con l’Iran sciita che non ha ragioni geopolitiche di conflitto con Israele. Chi me l’aveva fatto fare di porre una domanda così poco diplomatica? Potrei rispondere come quel protagonista dell’antica favola rispose alla rana: la mia natura di giornalista.

 

Gelo tra i commensali. Tranne la padrona di casa, una donna di grande intelligenza, cultura e signorilità, che avrebbe continuato a invitarmi anche in seguito. Un aiutante dell’ambasciatore cercò di buttarla sulla Bibbia e il Talmud: “Sono millenni che i persiani cercano di sterminarci”. L’ambasciatore, un uomo alto, con una corporatura possente che suggeriva passate esperienze militari, invece rispose: “Non si può lasciare che l’Iran abbia l’arma nucleare, destabilizzerebbe l’intera regione. Si farebbero l’atomica anche l’Arabia saudita e la Turchia”. Era convincente. Ve l’immaginate se l’Ucraina, al momento del distacco dalla Russia, si fosse tenuta le atomiche?

 

La storia non si fa con i se. Ma realtà e fiction si rincorrono, si compenetrano. Ultimamente si rincorrono più del solito. La nuova sanguinosa battaglia nel campo profughi palestinesi di Jenin in Cisgiordania e l’attacco di droni israeliani a un’istallazione militare iraniana a Isfahan mi hanno dato un’impressione di déjà vu. L’avevo già visto. In due serie televisive che mi avevano tenuto per molte sere incollato al teleschermo in epoca Covid: Fauda e Teheran. Entrambe con suspense magistrale, da mangiarsi le unghie. Entrambe israeliane. Entrambe create dallo stesso autore, Moshe Zonder. L’una distribuita da Netflix, l’altra da Apple tv. Quattro stagioni dal 2015 Fauda. Tre stagioni, dal 2020, e una già preannunciata per metà 2023 Teheran. Entrambe le serie di sconvolgente attualità. Quasi giornalismo mi verrebbe da dire. 

 

L’ultimo episodio di Fauda (il titolo sta per “Caos” in arabo) sembra una telecronaca di quanto successo in questo giorni a Jenin. I membri di un’unità delle forze speciali israeliane entrano proprio nel campo di Jenin nel tentativo di catturare (o uccidere) il capo di una formazione terrorista (rivale sia dell’Autorità palestinese che di Hamas). Vengono accolti dall’ostilità dell’intero quartiere. Alla sassaiola segue una sparatoria. Interviene l’esercito israeliano per “estrarli”. Difficile dire se venga prima l’uovo o la gallina, prima la fiction o la cronaca: una violenta battaglia, con molte vittime da una parte e dall’altra, tra i militari israeliani come tra i palestinesi, e c’era già stata nel campo di Jenin nel 2002. Abbonda, specie nell’ultima serie, il ricorso ai droni e alle intercettazioni. 

 

Teheran inizia con l’infiltrazione in Iran di un’agente israeliana, la bellissima Tamar, interpretata dalla modella israeliana Niv Sultan. È incaricata di sabotare le difese elettroniche iraniane per consentire un raid aereo israeliano contro un’istallazione nucleare. Segue una lunga caccia all’infiltrata e una guerra tra i Servizi israeliani e il controspionaggio di Teheran, con molti colpi di scena, conflitti di potere e tradimenti, da una parte e dall’altra. Ci guarderemo bene dal rovinarvi la sorpresa, raccontando come va a finire. Gli attacchi con “quadricotteri”, piccoli droni teleguidati che trasportano esplosivi, tipo quello a Isfahan, richiedono qualcuno che li guidi non da grande distanza. Ci vuole anche quella che in gergo chiamano Humint, intelligence umana, cioè agenti sul posto.

 

Non si sa quale fosse l’istallazione militare presa di mira questa settimana in pieno centro a Isfahan, l’antica perla della Persia, la Firenze dell’Iran. A Isfahan c’è un centro per la produzione di componenti di droni tipo i Shahid, quelli che l’Iran ha fornito alla Russia e vengono utilizzati in Ucraina, o per i missili Shahab a medio raggio, che dall’Iran potrebbero raggiungere Israele. L’agenzia ufficiale iraniana Irna ha riferito che i droni avrebbero colpito una fabbrica di munizioni. Il ministro degli Esteri ha dichiarato che si è trattato di un “vile attacco che non fermerà il pacifico programma nucleare iraniano”. Non è molto logico che ci siano impianti nucleari o fabbriche di munizioni nel pieno centro di una città di due milioni di abitanti. Ma missili e atomica sono due facce della stessa medaglia. Avere la bomba non servirebbe a nulla se non si dispone anche del missile per mandarla a destinazione.

 

Sono anni, anzi decenni che i servizi israeliani e quelli iraniani giocano al gatto e al topo. A volte il gatto è l’uno e il topo l’altro, altre volte il gioco sembra procedere a parti invertite. A volte il gatto si vanta di aver beccato il topo, anche se ha fatto cilecca. Altre volte il topo si vanta di averla scampata, anche se è stato bell’e divorato. La propaganda fa parte della covert action. Ammettere uno scacco è più duro che far finta di niente. Sia il Mossad che il corpo dei Guardiani della Rivoluzione islamica, che ha incorporato i servizi segreti (gli ayatollah non si fidano dell’esercito) hanno una reputazione da difendere. Si giocano il posto. Solo di recente a Teheran hanno cominciato ad ammettere che sparivano o venivano assassinati i loro scienziati nucleari.

 

L’Iran in genere non ammette le defezioni di responsabili della propria intelligence alla compagine nemica. Nemmeno quando poi cerca di assassinarli. Anzi, hanno vantato di aver infiltrato loro il Mossad. Il sabotaggio del programma nucleare iraniano è cominciato un quarto di secolo fa, con la fornitura di parti, schemi e software difettosi. Ma è solo nell’aprile 2021 che Israele ha confermato per la prima volta che i propri servizi erano all’origine di un massiccio cyber-attacco all’impianto sotterraneo per l’arricchimento dell’uranio a Natanz. Come avessero avuto la dritta dalla serie televisiva Teheran, che aveva cominciato ad andare in onda da poche settimane. Il gioco consiste nello sminuire i successi dell’avversario e vantare i propri.

 

Sia Fauda che Teheran hanno in comune uno sforzo di “umanizzazione” del nemico. Non ci sono mostri o buoni per definizione. I vertici del Mossad e dello spionaggio e controspionaggio iraniano si somigliano. Ciascuno fa il suo mestiere con spregiudicatezza, senza scrupoli, ma anche senza inutili crudeltà. Hanno le loro ambizioni, le loro fisime, le loro ossessioni, i loro tic, i loro incubi. In Fauda anche i più spietati e fanatici terroristi hanno affetti, hanno famiglia. In Teheran il dirigente del controspionaggio iraniano Faraz Kamali (interpretato da uno straordinario Shaun Toub) è un professionista serio, che sa il fatto suo, ha il fiuto del detective. Non è un fanatico religioso, è un patriota. Ama teneramente sua moglie, guardano insieme in tv le serie televisive turche (che sono disponibili solo per ricezione satellitare, ufficialmente proibita).

 

Non perde il sangue freddo nemmeno quando il Mossad gli rapisce la moglie, da un letto di ospedale a Parigi dove si è recata per farsi operare un tumore al cervello. “Ne ho fatte di cose crudeli nella mia carriera, ma non pensavo che voi arrivaste a questi livelli di inumanità”, lo si sente dire in una improbabile conversazione al cellulare con il suo omologo del Mossad. Lo spettatore israeliano o occidentale simpatizza con lui quasi più che con i suoi avversari a Tel Aviv. Il messaggio è che i mostri “sono come noi”. L’ha rivendicato esplicitamente la producer della serie Teheran, Dana Eden, quando le hanno consegnato a Los Angeles il premio Emmy per il 2021: “Non è solo un thriller spionistico. Riguarda la comprensione umana del nemico… La speranza è che un giorno, noi israeliani e gli iraniani potremo lavorare fianco a fianco, a Teheran come a Gerusalemme, da amici, non da nemici…”.  

 

L’una serie e l’altra sono attentissime al dettaglio di ambientazione e ai particolari che possono evocare nello spettatore gli avvenimenti di cronaca. I protagonisti in uno parlano tra di loro in arabo, nell’altro in farsi. I personaggi evocano fatti e personaggi reali. Ad esempio, in Teheran il collaboratore dell’agente israeliano è un tecnico informatico che lei ha incontrato durante una protesta anti regime all’Università. Somiglia anche fisicamente a Sohrab Arabi, uno studente che era stato arrestato durante le manifestazioni contro le elezioni presidenziali truccate del 2009, e poi fu ritrovato cadavere, con un colpo al petto e uno alla testa.

 

Lo spezzone sulle manifestazioni sembra anticipare quelle di questi giorni. Vi si vede una giovane donna che si toglie un foulard bianco e lo agita di fronte ai manifestanti. Appena arrivata l’agente Tamar vede dai finestrini del taxi un’impiccagione in piazza con una gru gialla per l’edilizia, come se ne vedono in questi giorni. Braccata dal controspionaggio iraniano, si rifugia in un casolare in montagna, con vista su Teheran, dove dei giovani partecipano a un rave party che farebbe inorridire il nostro prefetto Piantedosi, con tanto di droga, sesso e alcol. 

 

La mimesi è facile per Fauda, che si svolge in Israele o nei territori palestinesi. Più difficile per Teheran, che per ovvie ragioni non poteva essere filmato nella capitale iraniana. L’hanno girato invece ad Atene. I media iraniani hanno fatto facile ironia sugli “errori”, la falsa segnaletica stradale, e altri scivoloni: “Dal Mossad ci si sarebbe aspettati di meglio. Se avessero chiesto alle loro spie in Iran sarebbero stati più accurati”. Io, che a Teheran ci sono stato negli anni della rivoluzione di Khomeini, e ci sono tornato solo trent’anni dopo, ho semmai un’altra critica: che una città orrenda e grigia, dal traffico assolutamente impossibile, divenuta molto più brutta dopo che la montagna alle spalle è stata deturpata da orrendi casermoni destinati ad alloggiare pasdaran e nomenklatura del regime, sia ritratta come vivace e moderna, anzi quasi come piacevole da viverci. 

 

Vorrei dissipare un possibile equivoco. Non sono un patito delle serie tv. Confesso: non ho mai visto neanche una puntata di Beautiful o di Dallas. Il Trono di spade ho provato a guardarlo solo di recente. Volevo vedere se mi dava qualche idea sulle convoluzioni del conflitto in Ucraina. Avevo letto colte interpretazioni che sembravano darmi tracce promettenti. Mi sono annoiato dopo una dozzina di puntate. Mi ci vorrebbe molto più del tempo che ho a disposizione per guardare i duecento e passa episodi, senza contare il sequel iniziato da poco. Devo fare meglio i compiti. E poi ho l’impressione che il riferimento sia più agli intrighi, ai tradimenti, ai cambi di alleanze della guerra delle Rose nell’Inghilterra medievale che alla geopolitica dei giorni nostri. Ma in questi ultimi anni ho fatto un’eccezione per Homeland, per House of Cards sulla politica statunitense (mi sono fatto l’idea che la serie abbia spianato la strada all’antipolitica di Trump), e per l’humour della serie Le Bureau, parodia sui servizi francesi.

 

Altro possibile equivoco da chiarire: non sono un esperto di servizi segreti, anche se l’argomento mi ha sempre interessato. Ho scritto un libro, Spie e zie, che è stato definito “autobiografia generazionale” sulle spie, i “grandi clandestini” degli anni 30. Uno di loro era un mio zio, di cui in decenni di ricerche sono riuscito a scoprire solo che faceva la spia di Stalin a Parigi, ma non che fine abbia fatto. Sono stato, come immagino molti di voi, un lettore appassionato di Le Carré. Nel mio ultimo libro, Colazione a Pechino, racconto la vicenda comica dell’agente del Gru che avevo conosciuto in Cina. Operava sotto le mentite spoglie di corrispondente della Izvestija. In un libro uscito dopo che aveva fatto defezione agli americani (la fascetta editoriale diceva: “Le memorie dell’agente del Gru più alto in grado fuggito in Usa”) sostiene di avermi “reclutato” perché una volta, per togliermelo di torno, gli avevo passato una intervista già pubblicata sull’Unità.

 

Ero diventato da un giorno all’altro, e senza alcuno sforzo, “la fonte più attendibile sulla Cina” per lo spionaggio militare sovietico. Molti anni dopo ne ridevamo ancora con il mio interprete, che senza alcun dubbio faceva capo ai servizi cinesi. In realtà non mi ha mai “reclutato”, né cercato di reclutare nessuno. Forse perché non ne valeva la pena. O perché – è la spiegazione che preferisco di gran lunga – già raccontavo tutto nei miei articoli. Dopo le vicende delle due Guerre mondiali e della Guerra fredda, il capitolo più ricco e suggestivo è certamente quello delle Guerre segrete tra Israele e i suoi nemici.

 

A Teheran avevo conosciuto l’addetto stampa dell’ambasciata statunitense, Barry Rosen. Non ho idea se lavorasse per la Cia o meno. Non gli importava che scrivessi per il giornale del Pci. Aveva notato il cognome. Mi ricevette chiedendomi se ero del “popolo della terra”, cioè ebreo come lui. Fu il primo a dirmi che le possibilità che lo Scià restasse al potere erano “fifty-fifty”, cioè scarse. Rosen rimase prigioniero per 444 giorni in quello che Khomeini aveva definito “il covo di spie”, l’ambasciata statunitense a Teheran occupata nel novembre 1979. È mio coetaneo. Mi ha fatto piacere leggere che è sempre combattivo.

 

Ancora l’anno scorso di questi giorni faceva uno sciopero della fame perché gli americani tuttora prigionieri in Iran non fossero esclusi da un possibile accordo. Probabilmente era una spia sovietica l’inviato della Pravda che mi propose di andare con lui in Land Rover nel deserto di Tabas dove erano precipitati gli elicotteri statunitensi che trasportavano i marine che avrebbero dovuto liberare gli ostaggi in ambasciata. Non ci andai. Avevo già preso un buco spaventoso allontanandomi qualche giorno da Teheran per andare in montagna a seguire la guerriglia curda. Il capo del Partito democratico del Kurdistan iraniano che avevo conosciuto in quella occasione, Abdul Rahman Ghassemlou, fu abbattuto da sicari iraniani qualche anno dopo a Vienna. Mi spiace di non avere abbastanza fantasia da raccontare il tutto come fanno le serie tv.

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