ottant'anni dopo

La giornata di Putin nel teatro Stalingrado

Micol Flammini

In una Volgograd rattoppata il presidente russo parla di vittoria in Ucraina e fa capire che non riuscendo a conquistarla, la pretende minacciando

La città di Volgograd ha accolto il presidente russo Vladimir Putin nascondendo le tracce di un degrado che avanza. Sono stati riparati strade e ponti, davanti alle facciate degli edifici mal tenuti sono stati messi enormi tendoni. Il sito di notizie locale V1.Ru ha raccontato che gli animali randagi sono stati fatti sparire e le misure di sicurezza hanno comportato per i cittadini un’interruzione momentanea della linea telefonica. Sono trascorsi ottant’anni dalla vittoria dell’Armata rossa contro l’esercito nazista, dalla fine dell’assedio della città allora chiamata Stalingrado, e il presidente di una Russia di nuovo in guerra ha cercato di avvolgere il ricordo di quel 2 febbraio del 1943 con un discorso propagandistico, volto a trovare legami tra la vittoria che cambiò il corso della Seconda guerra mondiale e l’invasione dell’Ucraina. Prima del suo arrivo in città è comparso un busto di Stalin e per le strade qualche cartello con il nome Volgograd è stato sostituito con la scritta Stalingrado, un cambiamento che i cittadini non hanno accolto in modo favorevole, dicendo che Stalingrado appartiene al passato. Nelle crepe del discorso di Putin per l’anniversario è però sembrato di scorgere un barlume di consapevolezza: la vittoria contro l’Ucraina non può conquistarsela, quindi la pretende minacciando. Il presidente si è scagliato contro quello che chiama l’“occidente collettivo”, dicendo: “Non comprende una semplice verità: tutta la nostra gente, tutti noi, siamo cresciuti e abbiamo assorbito le tradizioni del nostro popolo dal latte materno. Generazioni di vincitori che hanno creato il nostro paese con il loro lavoro, sudore e sangue che sono passati a noi come eredità. La fermezza dei difensori di Stalingrado… è la  guida morale ed etica più importante, e i nostri soldati e ufficiali le sono fedeli. La continuità di generazioni, valori, tradizioni: tutto questo è ciò che distingue la Russia, ci rende forti e fiduciosi in noi stessi, nella nostra correttezza e nella nostra vittoria”.

 

 

La battaglia di Stalingrado aveva a che fare con la sopravvivenza, con il tentativo disperato di respingere un’occupazione; l’invasione dell’Ucraina è l’opposto: i russi sono gli invasori e gli ucraini devono respingerli per sopravvivere. Putin ha parlato al morale dei russi, ha chiesto sostegno riportandoli a un  passato che non ha nulla a che vedere con il presente e il presidente russo si è rivelato ancora una volta un pessimo conoscitore della storia, propenso a tracciare parallelismi inesistenti. “Incredibile, davvero incredibile – ha detto dondolando il capo con fare incredulo – siamo di nuovo minacciati dai carri armati Leopard (tedeschi, ndr)  con le croci  e che di nuovo combattono contro la Russia sul suolo dell’Ucraina”. Gli ironici hanno notato che i Leopard non sono di epoca nazista, chi ironico non riesce più a esserlo ha sottolineato la sciatteria del collegare i tedeschi al nazismo. 

 

Vinceremo, è quello che ripete Putin e che ripetono i propagandisti alla televisione. Il messaggio è in sé un’ammissione di debolezza: dovete lasciarci vincere per evitare qualcosa di peggio. La minaccia nucleare è rimasta un non detto pericoloso, come in tanti discorsi, Putin sa quanto sia sgradita anche ai suoi alleati e si è limitato a dire: “Coloro che si aspettano di vincere contro la Russia sul campo di battaglia, a quanto pare non capiscono…  Non invieremo i nostri carri armati ai loro confini, ma abbiamo qualcos’altro con cui rispondere”. Il barlume di consapevolezza è in questa crepa: più che combattendo una guerra provocata da lui stesso, Putin pretende la vittoria come qualcosa che pensa gli spetti di diritto. 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.