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Sul Fatto si riscrive la storia del Novecento in chiave putiniana

Niccolò Pianciola

La fonte di un articolo di Angelo D’Orsi è un divulgatore neostalinista, convinto che il massacro di Katyn’, dove nel 1940 i sovietici trucidarono circa 22mila ufficiali polacchi, sia un espediente per attaccare Mosca. Ma già Gorbačëv aveva ammesso le colpe dell'Urss

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Sul Fatto Quotidiano del 31 gennaio, Angelo D’Orsi lamenta che in Europa lo “spazio per l’esercizio delle fondamentali libertà sembra ridursi giorno dopo giorno, mentre cresce, in maniera preoccupante, un fanatismo antirusso". Prova ne sarebbe che tre cittadini cechi sono stati condannati con decreto penale a otto mesi di carcere (pena sospesa) in base all’articolo 405 del codice penale ceco che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni chi neghi o metta in dubbio pubblicamente i “crimini contro l'umanità commessi da nazisti e comunisti”. Il più in vista dei tre è l’esponente del Partito comunista di Boemia e Moravia, il settantenne Josef Skála, che ha anche provato a candidarsi senza successo alla presidenza della Repubblica quest’anno. Il partito oggi ha poche migliaia di iscritti e nessun rappresentante in parlamento a Praga, ma è l’erede diretto del Partito comunista cecoslovacco al potere durante la dittatura terminata con la rivoluzione di velluto del 1989. Del resto, documenti d’archivio relativi ai plumbei anni della “normalizzazione” seguita alla primavera di Praga hanno mostrato come Skála fosse un volenteroso collaborazionista dell’occupazione sovietica del paese. L’attuale condanna si basa su dichiarazioni fatte durante una trasmissione radiofonica nel 2020 (uno dei condannati è il giornalista radiofonico Vladimír Kapal), in cui Skála ha sostenuto che la responsabilità del massacro di Katyn’ (descritto da D’Orsi come “l’uccisione nell’estate 1941 di migliaia di prigionieri di guerra polacchi sul territorio dell’Urss, occupato dalle truppe naziste”) sia da attribuire alla polizia politica sovietica è una “leggenda” fabbricata dalla propaganda nazista

 

L’assassinio di circa 22mila ufficiali polacchi è in realtà avvenuto ben prima, nella primavera 1940. E non in una regione occupata dai nazisti, ma su territorio russo, bielorusso e ucraino saldamente in mano ai sovietici. L’evento avvenne al culmine dell’alleanza di fatto del regime nazista e di quello sovietico tra agosto 1939 e giugno 1941, e fu, come ha spiegato Victor Zaslavsky, una “pulizia di classe”. Nella foresta di Katyn’ vicino a Smolensk, a Tver’, a Charkiv e in altre località, furono infatti assassinati e gettati in fosse comuni migliaia di ufficiali polacchi, dopo che i nazisti aveva rifiutato di prenderli in consegna e fare il lavoro sporco per i sovietici. Erano riservisti, nella vita civile professionisti e intellettuali: la classe medio-alta della Polonia indipendente, e il gruppo sociale con esperienza di leadership militare che il Cremlino temeva avrebbe potuto guidare la resistenza all’occupazione sovietica di metà del paese, avvenuta nel settembre 1939 in base al patto di spartizione dell’Europa orientale con la Germania.

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Mentre i nazisti decapitavano la società polacca nella loro metà di Polonia occupata con migliaia di esecuzioni, il massacro dei prigionieri nelle mani dei sovietici fu compiuto in base ad una risoluzione del Politburo del 5 marzo 1940 che esplicitamente escludeva qualsiasi procedura giudiziaria. I circa 22mila ufficiali morirono per la loro identità, sociale ancora prima che etnoconfessionale: la maggioranza degli uccisi erano cattolici polacchi, ma quasi un decimo erano ebrei, tra cui il rabbino capo dell’esercito polacco, Baruch Steinberg; altri erano ucraini o bielorussi. Solo circa 400 ufficiali prigionieri furono risparmiati, perché avevano conoscenze utili al regime di Stalin (per esempio lo studioso dell’economia tedesca Stanislaw Swianiewicz), o per richieste diplomatiche di stati non ostili all’Urss in quel momento, come l’Italia fascista. Poco dopo, in aprile, circa 61mila famigliari degli ufficiali assassinati (in stragrande maggioranza bambini, donne e anziani) furono deportati in Siberia e Kazakistan, dove migliaia di loro morirono di malattie e di freddo nei mesi successivi.  

   

Tutto questo è ampiamente risaputo, studiato, ufficialmente commemorato da lapidi e cerimonie. Negli anni novanta gli storici di Memorial – la ong premio Nobel recentemente liquidata in Russia – Arsenij Roginskij e Oleg Gorlanov hanno avuto un ruolo importante nello studio della storia dell’eccidio e delle deportazioni dalla Polonia occupata. Dopo decenni di menzogne, lo stato sovietico sotto Gorbačëv fece le prime ammissioni e scuse ufficiali; con El’cin la Russia postsovietica trasmise ufficialmente alla Polonia vari documenti d’archivio relativi al massacro. Da allora un memoriale è stato eretto a Katyn’, mentre cerimonie pubbliche di ricordo dell’evento e per la riconciliazione sono avvenute anche sotto Putin. L’ultima nel 2010, quando l’aereo che portava una nutritissima rappresentanza ufficiale polacca alla cerimonia è caduto vicino a Smolensk, uccidendo l’allora presidente Lech Kaczyński, alti dignitari militari e civili, e anche discendenti delle vittime dell’eccidio. 

   

Ma negli anni di Putin, soprattutto nell’ultimo decennio con l’involuzione repressiva e ultranazionalista del regime, l’atteggiamento ufficiale russo sugli eventi di Katyn’ è cambiato, nel contesto di una sempre più forte centralità della “Grande guerra patriottica” – la cui narrazione ufficiale, che riproduce la reticente vulgata tardosovietica, è difesa da una legge penale ben più severa di quella ceca – come momento più alto della gloria militare russa. Nel 2017 la Società di storia militare russa, guidata dall’ex-ministro della cultura Vladimir Medinskij, ha installato provocatoriamente a Katyn’ una lapide che commemora i russi morti in prigionia in Polonia durante la guerra del 1919-21. Nel 2020 a Tver’ la lapide commemorativa del massacro sull’edificio che ospitava l’NKVD staliniana è stata rimossa. Lo stesso anno, mentre Josef Skála ripeteva la versione stalinista degli eventi di Katyn’ alla radio ceca, una conferenza di storici tenutasi in Russia presso Tver’ ha concluso che la versione della responsabilità sovietica dell’eccidio è parte di una campagna propagandistica che mira a screditare il ruolo dell’Urss nella Seconda guerra mondiale. Ospite straniero di quella conferenza era lo statunitense Grover Furr, professore in pensione di letteratura inglese medievale e prolifico produttore di lavori che propugnano una versione neostalinista della storia dell’Urss (anche la storia ‘mainstream’ della carestia ucraina, per Furr, è opera della propaganda nazista o neonazista).

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Ed è proprio un articolo di Grover Furr a essere l’unica “fonte” di Andrea Catone, direttore della rivista “MarxVentuno”, autore di un articolo che con ogni evidenza è a sua volta la “fonte” del pezzo di D’Orsi per il Fatto. E così, brandendo la condivisibile avversione a leggi contro reati di opinione come quell’articolo del codice penale ceco, D’Orsi e il Fatto si fanno cassa di risonanza nel nostro paese della riscrittura putiniana della storia del Novecento.

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