bianco e blu

Come protestano i russi

Micol Flammini

L'emigrazione di ieri e di oggi e cosa vuol dire ricostruire la Russia da una bandiera dai colori diversi

 

"Ho ucciso l’Impero dentro di  me
(...) Sulla nostra bandiera
Neve bianca e fiume blu (e basta)."
Ojda, Oxxxymiron

 
Lo scorso fine settimana, le foto delle manifestazioni oceaniche degli iraniani a Berlino hanno portato molti a esclamare: guardateli gli iraniani dentro e fuori l’Iran, come marciano contro il regime,  e i russi invece perché non protestano contro il Cremlino? Il dissenso russo esiste, ha esempi coraggiosi e una storia accidentata. All’inizio dell’invasione ci si domandava perché i cittadini russi non organizzassero manifestazioni ostinate, perché non scendessero in piazza giorno e notte: quella che da parte occidentale era una curiosità, da parte degli ucraini era invece una richiesta. La risposta più comune di chi vive  lontano dalla Russia da anni era: perché la guerra ancora non li riguarda direttamente, vedrete quando il presidente russo, Vladimir Putin, mobiliterà tutti i cittadini per combattere in Ucraina.  La mobilitazione è arrivata a fine settembre, ci sono state proteste di qualche giorno,  represse con vigore. Molti russi sono scappati e dopo qualche  manifestazioni contro il regime non si è più sentito parlare di proteste, picchetti, scontri. Parte della popolazione maschile è stata mobilitata, portata prima nei centri di addestramento, poi al fronte, qualcuno è già morto.

 

Vivere in un regime, che sia russo o iraniano, porta spesso i cittadini a disinteressarsi del quotidiano, a prendere le distanze dal potere e fare di tutto affinché il governo li lasci vivere, perché vivere non è affatto scontato. Il Cremlino reprime le proteste sul nascere,  le parole “no alla guerra”, net vojne, declinate in vari modi,  possono portare  in prigione con l’accusa di terrorismo. Questa settimana, un professore di un’università di San Pietroburgo, Denis Skopin, è stato licenziato per essersi schierato contro l’invasione e  ha salutato i suoi studenti con un discorso sull’amoralità e sull’importanza di agire sempre secondo coscienza.  Per aver partecipato a una protesta contro la guerra aveva già trascorso dieci giorni in prigione ed è stato mobilitato.   

 

Non si hanno ancora i numeri esatti di quanti russi siano fuggiti, la possibilità di andare in paesi limitrofi si è fatta più difficile dal momento che i confini di  Lettonia ed Estonia sono sempre più chiusi. In questi paesi però vivono alcuni russi da generazioni e la convivenza,  non sempre semplice, si è fatta più complessa con l’inizio dell’invasione. Con il tempo le autorità hanno iniziato a porsi in modo sempre più intransigente nei confronti della minoranza. La paura di una Russia di nuovo minacciosa e belligerante nelle vicinanze le ha spinte a sigillare i loro confini. In Europa c’è una diaspora russa antica, ma che ha lasciato il paese prima ancora dell’arrivo di Vladimir Putin al Cremlino. Secondo Sergey Radchenko, storico della Guerra fredda e docente della Scuola di studi internazionali avanzati dell’Università Johns Hopkins, questi russi sono completamente integrati, si sentono europei e non si sentono responsabili per quello che sta accadendo in Ucraina né più né meno degli altri cittadini dell’Ue. Protestano, ma non sempre evidenziano di essere russi. L’emigrazione di èra putiniana, iniziata dopo l’invasione, è recente, poco organizzata, ma questo non vuol dire che non ci sia. “La generalizzazione è un pericolo.  Nei paesi dell’Europa dell’est si pensa che il sostegno a Putin sia universale, così si finisce per odiare una popolazione. E’ sempre accaduto: nella Prima guerra mondiale, nella Seconda, e sta accadendo ora. Invece ci sono russi che si oppongono, non è facile quantificare, ma in Russia rischiano la vita e fuori dai confini spesso si confondono con gli altri europei o, in quanto russofoni, con gli ucraini”. 

 

Non a tutti i russi sta bene che si pensi che siano conniventi con il regime,  che accettino le azioni criminali in Ucraina, che la Russia sia asservita a Putin. Dopo aver iniziato a partecipare alle proteste contro la guerra a Berlino, un gruppo di designer ha pensato: facciamolo vedere che siamo russi. C’era bisogno di un simbolo, di qualcosa che diventasse il segno distintivo dell’altra Russia. Il tricolore sarebbe sembrato una provocazione, ma da qui è nata l’idea di una bandiera da far sventolare assieme a quella ucraina. I designer hanno deciso di togliere il rosso dal vessillo russo – associato al sangue – e di lasciare il blu e il bianco: il fiume e la neve. Le proteste russe all’estero hanno iniziato così ad avere il loro simbolo, con l’intento di dimostrare che l’altra Russia esiste e si potrà ripartire da lì. Il rapper  Oxxxymiron alla nuova bandiera e alla nuova Russia ha dedicato una canzone, intitolata “Ojda” e per questo è stato aggiunto alla lista degli agenti stranieri. 

 

 

Sergey Radchenko ha detto al Foglio che odiare è facile, “è la cosa che riesce meglio agli esseri umani”, e a questa tendenza umana va aggiunto il fatto che in paesi  dell’Europa dell’est  il rapporto con i russi ha generato tensioni sociali.  Ma c’è una bandiera da cui ripartire e conviene imparare a distinguerla nelle manifestazioni contro la guerra: è il primo segnale che una nuova Russia è possibile. 
 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)