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protagonista mancata

Qualcuno ha visto Kamala Harris? Storia della vicepresidente che non piace a nessuno

Giulio Silvano

Chiacchierata dal suo staff e contestata da sinistra, anche quella di Bernie Sanders, a destra. Non è riuscita a diventare protagonista dell’Amministrazione Biden e porta a casa un primato: non piacere a nessuno

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Era diventato virale il video in cui al telefono Kamala Harris – felpetta Nike e leggins da jogging, in mezzo a un prato  – dice al telefono, “We did  it, Joe”, “Ce l’abbiamo fatta, diventerai il prossimo presidente degli Stati Uniti”. E sottinteso: “E io la prossima vice presidente degli Stati Uniti”. Un triplo record, come hanno ricordato per settimane alcuni giornali e programmi televisivi, per Kamala Harris: la prima donna, la prima asiatica e la prima nera. Una combo imbattibile contro ogni accusa nell’èra postcoloniale #MeToo. Sembrava, per il partito, una minuscola rivincita dopo la sconfitta di Hillary Clinton. E una forma di riappropriazione del genere femminile dopo che i repubblicani avevano tentato di far eleggere loro una donna vice presidente nel ticket con John McCain: Sarah Palin, governatrice dell’Alaska e uno dei volti del Tea Party.

 

In realtà negli anni ottanta ci avevano già provato i dem a candidare una donna, la prima della storia, alla vicepresidenza – Geraldine Ferraro, anche la prima italo-americana – ma si sapeva che Walter Mondale non aveva grandi possibilità contro Ronald Reagan. Infatti le elezioni del 1984 furono un record, ancora da superare, per il numero di elettori vinti da uno dei candidati (525 per Reagan, 13 per Mondale, che si aggiudicò solo il Minnesota, il suo stato di origine). Con Kamala Harris finalmente i progressisti potevano vantare un nuovo primato, dopo quello del primo afroamericano alla Casa Bianca, con Obama. Ma Trump ha cambiato tutto, e la vittoria di Biden-Harris ha portato più un sospiro di sollievo che non quell’esaltazione generale che si era sentita nel 2008 tra i progressisti, tra le minoranze e tra le star di Hollywood. Non ha vinto Biden, ha perso Trump – è questo che importava alla maggioranza dei dem all’alba degli spogli. Sarebbe andato bene chiunque, pur di mandare a casa The Donald, il cui atteggiamento nei confronti del proprio ruolo aveva fatto sembrare Richard Nixon un dilettante.

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Solitamente la maggioranza degli elettori al momento del voto non dà troppa importanza al vice, che viene scelto per compensare le carenze del candidato presidente in determinate aree geografiche o categorie sociali. Biden era il perfetto bilanciamento per il giovane nero ex fumatore di marijuana un po’ intellettuale Obama, serviva a rassicurare l’establishment centrista e il proletariato bianco, attirando i voti dell’average Joe della costa est. Simile era stata per Hillary la scelta del non troppo memorabile Tim Kaine, un Biden del sud, che avrebbe dovuto aiutarla a prendere un po’ di numeri tra i moderati sotto la linea Mason-Dixon, lei che rappresentava i “poteri forti”. Le ultime elezioni sono state un caso abbastanza eccezionale, perché se Biden rappresentava la vecchia guardia – la scelta sicura per rubare qualche indeciso o ex repubblicano non populista, e in un certo senso un prolungamento soft dei due mandati Obama –  per il voto più liberal ed etnico il partito ha puntato su una donna afro-indio-giamaicana. Ma la vera novità è che nel 2020, vista l’età avanzata di Biden, molti hanno votato – o non votato – il ticket democratico sapendo che ci sarebbe stata la possibilità che Harris diventasse lei la presidente nei successivi quattro anni, se Biden fosse stato rimosso in office.

 

Se Harris è stata utile per battere Trump, da lì in poi ha fatto poco per l’immagine della Casa Bianca. Da quando ha preso possesso del suo ufficio nella West Wing, Kamala non si è fatta amare da molti. Diverse persone che hanno lavorato con lei la descrivono come un bullo, e a volte come poco preparata per la sua posizione: “Quattro anni da senatore non sono abbastanza per capire come funziona qui”, ha detto una fonte anonima. Un membro del suo staff l’anno scorso ha riferito a Newsweek: “Con Kamala devi costantemente sopportare critiche demoralizzanti, oltre alla sua mancanza di autostima”. Questo spiegherebbe le numerose dimissioni tra i suoi sottoposti. Pochi giorni fa si è licenziato il direttore degli affari intergovernativi Micheal Collins, dopo l’addio a luglio della consigliera per le politiche interne Rohini Kosoglu e della responsabile dei discorsi, Meghan Groob, che ha tenuto la sua posizione solo per quattro mesi. Gli uffici stampa hanno cercato di contenere le notizie sul caos che regnerebbe nell’ufficio della VP, ma i piani alti sarebbero preoccupati, soprattutto in vista delle elezioni di novembre. 

 

Altre fonti parlano della frustrazione che proverebbe Harris nel non aver ricevuto sfide politiche alla sua altezza. Dopotutto, quando si era candidata alle primarie, non solo aveva mostrato molta verve, ma anche intransigenza su diverse posizioni, criticando duramente altri candidati o l’amministrazione precedente. Nel ruolo che ha oggi, però, non riesce a trovare i modi per diventare protagonista. Come sappiamo dalla storia di Dick Cheney – e dal film Vice di Adam McKay – il vicepresidente può influire notevolmente sull’esecutivo, ma non è questo il caso. Per come stanno andando le cose sembra rappresentativa l’immagine sulla copertina di Time quando nel 2020 Biden ed Harris sono stati scelti come persone dell’anno. La vicepresidente è quasi del tutto coperta dalla faccia di Biden. Alcuni lo considerano responsabile di averla usata solo a fini elettorali per creare una squadra il più possibile multirazziale ed equilibrata a livello di genere, cercando di acchiappare voti tra le minoranze e tra i millennial woke, per abbandonarla poi una volta arrivati al potere. Ad oggi l’unica visibile utilità della VP è stato il voto decisivo per far passare il sofferto Inflation Reduction Act, portando i senatori dem a 51, contro i 50 repubblicani. 

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Fuori da Pennsylvania Avenue le cose non vanno meglio per Harris. Oggi, facendo una media tra i sondaggi, la VP ha un livello di disapprovazione del 55,3 per cento. Numeri difficili da recuperare che la terrebbero lontana da diventare l’erede naturale di Biden se lui non dovesse candidarsi nel 2024. Diverse voci iniziano a orientarsi, tra gli insider, verso il più apprezzato Pete Buttigieg. La sinistra che avrebbe voluto Bernie Sanders alla Casa Bianca, poi, non sopporta Harris. Molto ha a che fare con le sue scelte di quando era procuratrice distrettuale a San Francisco e poi procuratrice generale in California, prima di arrivare a Washington: opposizione alla depenalizzazione della marijuana per usi ricreativi e pugno durissimo sui reati minori di possesso. Temutissima, avrebbe inoltre bloccato alcune procedure necessarie alla cancellazione della pena di morte nello stato. Una volta eletta, le critiche maggiori sono arrivate per come ha gestito la crisi migratoria, il suo compito principale da VP che gli ha assegnato Biden.

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Nel suo primo viaggio all’estero, in Guatemala, Harris ha detto, implorando la popolazione: “Non venite negli Stati Uniti”. E, per via del Covid, l’amministrazione ha mantenuto una politica di emergenza creata da Trump, per espellere automaticamente qualsiasi immigrato senza documenti. Inoltre, le posizioni dell’ex senatrice californiana in difesa del sistema sanitario pubblico e dell’abbassamento delle rette universitarie – due cavalli di battaglia di Sanders – sono sempre state molto tiepide e confuse. Harris è stata la prima vice-presidente a partecipare a un Gay Pride, ma alcuni attivisti LGBTQ+ dicono che quando era procuratrice non ha per nulla aiutato la comunità, negando per  esempio le cure mediche a un carcerato trans, e opponendosi alla depenalizzazione del sex work, affermando che aiuterebbe la trasmissione dell’Hiv.

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Anche a molti repubblicani Harris non piace. Hanno paura che crei leggi troppo costrittive per il possesso di armi da fuoco, per  esempio. E hanno il terrore che voglia rendere tutti gli Stati Uniti “come la California”, stato troppo liberal e libertino. C’è anche del sessismo, nelle accuse che arrivano da destra. Molti commentatori Fox e simili negli ultimi anni hanno usato il metodo Hillary parlando del carattere di Harris, sottolineando quanto sia troppo aggressiva, troppo rabbiosa e ambiziosa – è stata paragonata anche a una vipera. Uno degli insulti più usati è stato “nasty”, sgradevole, spiacevole, con cui spesso si etichettava anche Hillary. Alcuni hanno anche tirato fuori il vecchio dubbio razzista propagandistico del “non è nata negli Stati Uniti”, come era successo con Obama. 

 

Quando a novembre 2021 Biden ha dovuto fare una colonscopia, Harris ha acquisito di diritto i poteri presidenziali per i 48 minuti dell’anestesia. Le preoccupazioni per la salute del presidente, che nel fine settimana ha preso il Covid per la seconda volta, hanno a che fare anche con la sua storia clinica, oltre che con la scarsa lucidità durante i comizi. Biden, che compirà 80 anni a novembre, ha già avuto due aneurismi celebrali, l’ultimo nel 1988. Secondo i sondaggi una buona parte degli americani pensa che il presidente non sia sufficientemente in forma per ricandidarsi. 

 

La teoria più forte, amata dall’Alt Right, per attaccare Harris, si basa sull’età e sulla salute del presidente. Il commentatore conservatore Ben Shapiro aveva detto nel 2020: “Trump dovrebbe rendere molto chiaro che a questo punto sta sfidando Kamala Harris alle elezioni, non Joe Biden. Joe Biden è una controfigura”. Molti trumpiani sono infatti convinti che Harris sia stata scelta per poter far diventare presidente una donna non-bianca senza passare per le urne, quando Biden verrà rimosso dal suo incarico. Piers Morgan, sul murdochiano New York Post, ha fatto una lista dei malanni del presidente dati dall’età o da un’eventuale demenza, invocando il venticinquesimo emendamento. Dovrebbe essere concentrato, dinamico ed energico, 24/7, ha scritto Morgan, descrivendolo come un uomo che sta invecchiando troppo rapidamente. Il venticinquesimo emendamento prevede che il vice prenda il potere nel caso di decesso, dimissioni o rimozione per malattia o incapacità manifesta. Sarebbe un regalo ai conservatori, dato che alle elezioni di novembre il Partito democratico si presenterebbe indebolito e rappresentato da una presidente che non piace a nessuno, e anche questo sarebbe un primato. 

 

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