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“Il neofemminismo di #MeToo non è emancipatore: è sradicatore”

Redazione

Sabine Prokhoris ha appena pubblicato “Le Mirage MeToo”, critica argomentata del neofemminismo, dei suoi postulati e dei suoi metodi

Sabine Prokhoris ha appena pubblicato “Le Mirage #MeToo” (Éditions du Cherche Midi), critica argomentata del neofemminismo, dei suoi postulati e dei suoi metodi. La filosofa e psicoanalista francese di origini greche descrive la rottura della nuova generazione militante con il femminismo degli anni Settanta. Nel 2017, ha dato alle stampe “Au bon plaisir des ‘docteurs graves’” (Puf), una lettura critica dei lavori della femminista radicale americana Judith Butler.

 

Le Figaro – Lei si spinge molto lontano, nel suo libro, nella critica del movimento #MeToo, che definisce un “miraggio”. Secondo lei, non ci sono soltanto alcune “derive”, si tratta piuttosto di un movimento “strutturalmente difettoso”. Perché è così severa?

 

Sabine Prokhoris – Secondo la doxa, #MeToo è una rivoluzione formidabile, con, purtroppo, qualche spiacevole deriva. Io sostengo il contrario: è un movimento strutturalmente difettoso, che tuttavia ha il merito innegabile di affrontare delle questioni effettivamente molto serie. All’inizio, #BalanceTonPorc, poi #MeToo, mi hanno lasciato dubitativa, e assai a disagio. Ovviamente le pratiche denunciate erano intollerabili. Ma il progetto portato avanti da #MeToo non è emancipatore, è sradicatore. La violenza senza filtri delle reazioni alla lettera aperta di Catherine Deneuve (l’attrice francese, nel 2018, pubblicò sul Monde una lettera contro il “nuovo puritanesimo” emerso dopo il caso Weinstein, ndr) mi ha rapidamente messo in allerta sul carattere assolutista del movimento, sul suo rifiuto di dibattere. Mettendomi al lavoro per comprendere le mie reticenze, ho rivisto i presupposti intellettuali di #MeToo, spiegato le sue logiche fraudolente, passato al setaccio gli pseudo-concetti e gli slogan. #MeToo si iscrive in una corrente più vasta, detta oggi “woke”, ma che chiamerei piuttosto “sonnambula”, visto come le sue parole d’ordine ipnotizzano il pubblico.

  

Qual è secondo lei la grande differenza tra il femminismo degli anni Settanta e questo nuovo femminismo che, secondo Élisabeth Badinter, ha preso “la strada sbagliata”?

 

Oggi è principalmente inquisitorio ed è incentrato sulla rivendicazione dolorista di un’“identità-vittima”. E poi le neofemministe pensano di aver inventato tutto. Secondo loro, #MeToo è stato l’anno I del femminismo: la “prima vera messa in discussione del patriarcato”, ci dice una storica. Ma affermano tutto ciò dimenticando, per esempio, che le prime a militare per la criminalizzazione dello stupro sono state le femministe degli anni Settanta. Questo sogno di tabula rasa spiega il carattere indigente dei loro discorsi, e la loro violenza a ruota libera: una “Rivoluzione culturale”, rivendicata. Noi sappiamo cosa significa (ma loro, a quanto pare, no): l’eliminazione di coloro che vengono designati come nemici politici, che devono essere denunciati, puniti, rieducati. 

 

Il più grande paradosso del neofemminismo non è quello di promuovere un oggetto (la donna) che si vuole allo stesso tempo decostruire?

 

Lei mette il dito in una contraddizione del femminismo “genderizzato”. Secondo questo femminismo, una donna è esclusivamente il prodotto dell’“oppressione di genere”, e non, “così come l’uomo, un essere libero e potente”, secondo le parole di Laclos nel libro “De l’éducation des filles”, un prodotto che le società hanno messo sotto tutela. Questa promozione che lei evoca è quella, affermata con toni vendicativi, di un’identità-vittima (donna), senza il passo di lato – oltre al fatto di essere una donna, si è un essere umano – che permette di pensare l’uguaglianza. All’interno della quale esistono ovviamente delle differenze, come sottolineava Simone de Beauvoir. Per i sostenitori di questa teoria, bisogna rivendicare come un’arma la propria identità discriminata (donna), ma ciò conduce in realtà a aderirvi senza vie d’uscita.

 

Lei evoca la maniera in cui questo femminismo colonizza l’arte. Perché, secondo lei, è un fatto inquietante?

 

“E’ fatale per chiunque scriva pensare al proprio sesso”, scriveva Virginia Woolf. Ma l’arte sotto il “female gaze” (lo sguardo femminile), per riprendere la loro retorica, analizza qualsiasi produzione artistica attraverso la griglia dell’“oppressione di genere”, con l’obiettivo di mettere fine alla “cultura dello stupro” (con Ronsard, per esempio, e tanti altri) e di promuovere un’“arte femminista”. Tutto ciò, secondo dei criteri analoghi a quelli decretati da Zdanov per stabilire le regole imperative del “realismo socialista”. Un’“arte” a servizio della Causa, uno strumento di rieducazione ideologica che metta al bando qualsiasi immersione nella complessità umana. Ciò produce delle opere di una piattezza assoluta, e soprattutto false, perché non riescono a “realizzare un ritratto dell’umanità con tutti i suoi particolarismi”, per utilizzare le parole di Philip Roth nel definire il compito dello scrittore di romanzi – ciò vale naturalmente anche per il cinema.

(Traduzione di Mauro Zanon)

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