Lo Stato islamico è in crisi, ma occhio a darlo per sconfitto

Francesco Petronella

Senza i vertici e senza un territorio occupato il gruppo jihadista appare indebolito. Ma ha ancora dei punti di forza e ci sono altri movimenti in agguato 

Lo Stato islamico è  vivo e continua a controllare una grossa fetta del mercato jihadista ma alcuni dei maggiori studiosi di questo tema dicono che  l’autoproclamato califfato sta attraversando  un periodo di grande difficoltà. Si parla insistentemente del declino di questo gruppo terrorista che ha stravolto il medio oriente e anche le nostre città occidentali, ma è difficile – e per questo interessante  – capire se l’esito di queste difficoltà sarà un superamento della crisi o l’ascesa di un qualche gruppo rivale che andrà a riempire l’eventuale vuoto di potere.

 

Lo Stato islamico è stato contemporaneamente due cose ben distinte: un’entità statuale che ha de facto abolito il confine tra Siria e Iraq tra il 2014 e il 2015, e al contempo un’organizzazione terroristica internazionale in grado di progettare attentati anche in occidente. La caduta nel marzo del 2019 di Baghouz, ultima roccaforte in mano ai miliziani dello Stato islamico in Siria, viene considerata  la fine dello Stato islamico come realtà territoriale. Le forze curdo-arabe e la coalizione anti Isis a guida americana hanno progressivamente ricacciato indietro il “califfato”, sgretolandone il dominio territoriale. Come organizzazione e come “marchio”, invece, lo Stato islamico ha continuato a esistere e gruppi radicali in zone diverse dal medio oriente hanno aderito alla sua causa. Nel settembre del 2021, dopo il ritiro occidentale dall’Afghanistan, si è parlato moltissimo di Isis-K, l’ala dello Stato islamico nell’area. Esistono poi ramificazioni anche nel Maghreb, in Asia e nel Sahel, dove la causa jihadista spesso si salda con le tensioni locali. 

 

In ogni caso, negli ultimi anni il califfato ha vissuto enormi difficoltà. I suoi leader si sono ritrovati braccati e liquidati da operazioni condotte tramite droni o con blitz delle forze speciali. Nell’ottobre del 2019 è stato ucciso a Barisha, nel governatorato siriano di Idlib, il primo califfo Abu Bakr al Baghdadi. La stessa sorte, in una località a pochi chilometri di distanza, è toccata il 3 febbraio 2022 ad Abu Ibrahim al Hashimi al Qurashi, secondo leader dello Stato islamico. Il 12 luglio scorso gli Stati Uniti hanno annunciato di aver ucciso con un drone Maher al Agal, capo dell’organizzazione in Siria. Decisamente più incerto il destino del terzo califfo, Abu al Hasan al Hashimi al Qurashi. Le autorità turche, il 26 maggio scorso, hanno fatto sapere di averlo catturato durante un blitz a Istanbul, ma finora non hanno fornito alcuna prova in merito.

 

Ad aprile scorso, il gruppo jihadista invitava i suoi sostenitori a riprendere gli attacchi in Europa, nel momento in cui l’occidente era “distratto” dall’invasione russa in Ucraina. Il portavoce dello Stato islamico, Abu Omar al Muhajir, chiedeva di approfittare dei “crociati che si combattono tra loro”. L’appello, per ora, sembrerebbe caduto nel vuoto. Aron Lund, esperto dell’istituto svedese Foi, dice che con questi messaggi il gruppo cerca soltanto di “mostrarsi aggiornato, allacciandosi agli eventi recenti”. Lo Stato islamico “non ha portato a termine alcun attacco importante in Europa dal 2017, e cinque anni sono un tempo molto lungo per un gruppo jihadista che era al centro delle dinamiche mondiali", spiega Olivier Guitta, della società di consulenza GlobalStrat .

 

Eppure il 2022 era iniziato in maniera diversa, con un’azione di forza tale da far credere che lo Stato islamico stesse effettivamente tornando. A gennaio, il gruppo era riuscito a far evadere migliaia di suoi adepti dalla prigione di al Hasakah, nel nord-est della Siria. Nel mese di marzo simpatizzanti dello Stato islamico hanno rivendicato almeno due attentati terroristici in Israele, nelle città di Beersheba e Hadera. Tuttavia, lo Stato islamico paga il fatto di aver perso una dimensione territoriale, che aveva svolto un ruolo enorme nell’attrarre giovani musulmani che vivevano ai margini delle società occidentali. L’Isis non ha più il controllo dei pozzi petroliferi né delle tasse riscosse tra Siria e Iraq, risorse che usava per gestire i suoi affari e finanziare attacchi all’estero. Entrare nello Stato islamico, scrive la rivista Foreign Policy, semplicemente non è più attraente come lo era una volta per gli aspiranti jihadisti d’Europa.

 

In agguato, pronte a guadagnare terreno a discapito dello Stato islamico, ci sono nuove e vecchie conoscenze del panorama jihadista. Prima tra tutte Hayat Tahrir as Sham (Hts), nata da quella che un tempo era la costola siriana di al Qaida. Il gruppo, insieme a un cartello di milizie filoturche, controlla la regione nordoccidentale siriana di Idlib. Non sembra casuale che non uno, ma ben tre dei leader dello Stato islamico siano stati liquidati proprio in questa zona. I gruppi qaidisti hanno dimostrato di saper resistere, cambiar pelle e tornare forti anche a distanza di anni. Il califfato, invece, potrebbe aver subìto un colpo troppo duro con la perdita della sua dimensione territoriale e con la decapitazione dei suoi vertici. Ma questo basterà a farlo sparire completamente?

 

“Un gruppo come lo Stato islamico non si sconfigge tramite omicidi  o altre azioni militari”, spiega al Foglio Andrea Dessì, dell’Istituto Affari Internazionali (Iai). “L’unico modo per sconfiggere questi gruppi è attraverso la governance e le riforme socio-economiche e di giustizia sociale. Sono interventi molto lunghi e che necessitano di pazienza, strategia e diplomazia. I regimi della regione sono però più interessati a salvaguardare il proprio potere, invece che investire nella rinegoziazione dei contratti sociali e nella sicurezza delle persone”, dice l’esperto. “Le ultime uccisioni di leader da parte degli Stati Uniti dimostrano che Washington resta focalizzata sul gruppo e che la minaccia rimane. Ma questo tipo di interventi possono al massimo toccare la punta dell’iceberg, mentre permangono le condizioni che consentono a questi gruppi di attecchire e guadagnare terreno”, conclude Dessì.

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