Terrorismo e ostaggi

Il processo contro la giocatrice di basket è un'altra arma del terrore di Putin

Il fine è uno scambio di prigionieri? Il Cremlino potrebbe chiedere alla Casa Bianca la liberazione del criminale Viktor Bout

Giulia Pompili

A Mosca va in scena la prima udienza contro la cestista americana Brittney Griner, accusata di traffico di droga. Come la Corea del nord, come l’Iran, la Russia sta usando la diplomazia degli ostaggi per fare pressioni

Fino a quattro mesi fa Brittney Griner era un’icona sportiva americana come molte altre. Adesso è l’ennesimo ostaggio nelle mani di Vladimir Putin, un’arma che brandisce per avere più potere contrattuale con l’America di Joe Biden. Ieri è iniziato il processo contro di lei al tribunale di Chimki, a Mosca, al quale non sono stati ammessi media e giornalisti. Le ultime immagini che sono state trasmesse sono quelle di Brittney Griner in manette che entra in aula. La prossima udienza ci sarà tra una settimana ma secondo quanto riportato dai giornali americani nessuno spera in un’assoluzione. Il potere giudiziario è in realtà un potere politico in Russia, specialmente in queste circostanze. Griner è stata arrestata il 17 febbraio scorso all’aeroporto di Mosca, una settimana prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Stava andando a Ekaterinburg, negli Urali, dove gioca nella squadra russa Ummc Ekaterinburg quando la stagione americana è finita (lo fanno moltissime giocatrici, per arrotondare). Nel suo bagaglio hanno trovato delle ricariche per la sigaretta elettronica probabilmente contenenti meno di un grammo di olio di cannabis. E’ accusata di traffico internazionale di stupefacenti e rischia più di dieci anni di carcere. 

   
Brittney Griner fino a ieri era una sportiva arrivata ai vertici della Women’s National Basketball Association, con due medaglie d’oro ai Giochi olimpici, pivot delle Phoenix Mercury. Oggi è un ostaggio del sistema giudiziario russo, con cui il Cremlino intende fare pressioni su Washington e sull’opinione pubblica americana. Kurt Volker, ex rappresentante speciale americano per le negoziazioni con l’Ucraina, ha detto alla Cnn che “la giustizia russa non ha niente a che fare con la giustizia. E’ solo uno strumento del potere politico del regime. E’ per questo che hanno preso la decisione di tenerla agli arresti”. Il metodo è sempre lo stesso: per aumentare la tensione l’ostaggio non può parlare con nessuno. Nessuna telefonata a casa. Solo l’incaricata d’affari dell’ambasciata statunitense, Elizabeth Rood, che ieri era presente all’udienza in rappresentanza del governo, è il suo collegamento con l’esterno da quando è iniziata la guerra, cioè da quando è detenuta. “Il governo degli Stati Uniti, dai livelli più alti, sta lavorando duramente per riportare a casa Brittney e tutti i cittadini americani detenuti ingiustamente”, ha detto la diplomatica ai giornalisti.


Il problema è che la Russia sta diventando sempre di più come la Corea del nord e come l’Iran. Un paese con cui è sempre più difficile trattare. Sono regimi che usano il terrore, dove ogni crisi può diventare un’arma. Lo dimostra il fatto che da giorni si parla di una possibile richiesta di scambio di prigionieri in relazione al caso Griner. Il New York Times ieri ipotizzava che dietro alla detenzione della cestista americana ci sia la volontà, da parte di Mosca, di chiedere all’America la liberazione di Viktor Bout, il cosiddetto “mercante della morte” a cui fa riferimento spesso la propaganda russa quando parla del caso Griner. Bout, 55 anni, ex ufficiale militare sovietico e milionario grazie al traffico mondiale di armi, fu arrestato nel 2008 in Thailandia, estradato in America dove nel 2011 un tribunale di New York l’ha condannato a 25 anni di carcere per associazione per delinquere, terrorismo e traffico d’armi. Non esattamente una sigaretta da svapo alla cannabis. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ieri ha negato per l’ennesima volta  che ci siano motivazioni politiche dietro all’arresto di Griner. 


La Corea del nord nei decenni si è specializzata nella cosiddetta diplomazia degli ostaggi. Secondo lo schema nordcoreano, l’ostaggio straniero – quasi sempre americano – serve ad attivare delle negoziazioni d’emergenza e ottenere soldi. L’ultima volta però è finita in tragedia: il ventiduenne di Cincinnati Otto Warmbier fu arrestato il 2 gennaio del 2016 all’aeroporto di Pyongyang, mentre stava per salire sull’aereo che l’avrebbe riportato a casa. Lo accusarono di aver rubato un poster di propaganda da un hotel. In un processo-farsa, fu costretto a confessare e condannato a 15 anni di lavori forzati. Iniziarono i negoziati per la sua liberazione, ma quando riuscirono a riportarlo a casa, dopo 17 mesi di detenzione, era in stato vegetativo. Morì sei giorni dopo il suo ritorno in America, probabilmente per gli effetti di un’intossicazione da botulino. E la Russia di Putin somiglia sempre più alla Corea del nord dei Kim. 
Giulia Pompili

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.