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Le madri spezzate dello Xinjiang

Siamo andati a trovare l’unica famiglia uigura rifugiata in Italia. Il Partito comunista li perseguita, le istituzioni italiane non sanno come aiutarli. I figli minorenni di Mihriban sono ancora nei campi di detenzione

Giulia Pompili

L’alta commissaria Onu per i  diritti umani, Michelle Bachelet, per la prima volta da diciassette anni è riuscita a entrare in Cina, ma il suo viaggio non è stata una vera indagine. Intanto sulla stampa internazionale escono nuove rivelazioni sulla repressione nello Xinjiang 

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Priverno, Latina. “Due anni. Due anni sono passati dall’ultima volta che ho sentito i miei figli. Siamo riusciti a telefonarci per un paio di mesi. Poi è arrivata la polizia”. Mihriban Kader è seduta in cucina nella sua casa in affitto a Priverno, nella provincia di Latina, tra i monti Lepini. Il tavolo per l’occasione è ricoperto di frutta fresca e secca com’è da tradizione islamica quando si ricevono ospiti. Mihriban non si è mai abituata a parlare con i giornalisti, ma si sforza di farlo, come con il Foglio a casa sua oppure a Roma, durante le proteste o nei sit in organizzati davanti alle sedi istituzionali, per cercare di tenere alta l’attenzione sulla storia della sua famiglia. Finora poco è cambiato: “Ho chiesto aiuto al governo italiano, alle istituzioni, alle associazioni”, dice al Foglio la signora Kader, con la voce spezzata dal pianto, “tutto quello che potevo fare l’ho fatto, ho bussato a tutte le porte, però ancora niente”.  Quello di Mihriban Kader è il primo caso avvenuto in Italia di una famiglia uigura perseguitata e divisa con violenza dal Partito comunista cinese. Il primo caso a essere diventato pubblico, perché non molti hanno il coraggio di parlare e di denunciare. Ancor meno i governi dove si rifugiano gli uiguri, la minoranza musulmana e turcofona che il Partito comunista cinese vuole annientare con la scusa del terrorismo islamico e dell’obiettivo di omogeneità della popolazione. La repressione degli uiguri è una priorità per la politica di Pechino e i paesi dove scappa chi è perseguitato non sanno come comportarsi, non sanno come trattare con Pechino quando la parte della legge internazionale finisce e inizia quella della negoziazione politica. 

 

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Eppure la storia di Mihriban Kader è quella di tantissime altre madri uigure che sono scappate dalla Cina per poter partorire il proprio figlio, sperando nel ricongiungimento con gli altri. Confidando nelle regole del diritto internazionale. I quattro figli maggiori della famiglia  Kader si trovano ormai da anni in uno di quei posti che il Partito comunista cinese chiama “centri di rieducazione e vocazionali” nella città di Kashgar, nella provincia autonoma dello Xinjiang. Una prigione, dove viene detto loro che i loro genitori sono dei traditori e dei sovversivi, dove devono parlare solo in mandarino e non credere più nell’islam: cancellare, di fatto, la propria identità uigura. Nei giorni scorsi  l’alta commissaria Onu per i  diritti umani, Michelle Bachelet, per la prima volta da diciassette anni e dopo lunghe trattative è riuscita a entrare in Cina, ma il suo viaggio nello Xinjiang, per valutare la situazione dei diritti umani, non è stata una vera indagine ma un giro turistico, una messa in scena buona per la propaganda. E lo dimostra il fatto che ieri c’è stata una videochiamata tra Bachelet e il presidente cinese Xi Jinping, e secondo la versione cinese Xi avrebbe detto: “Quando si discute della questione dei diritti umani, i paesi non hanno bisogno di lezioni”. Quasi in contemporanea con la visita di Bachelet in Cina sono stati pubblicati e verificati da diversi media internazionali numerosi file segreti della polizia dello Xinjiang, filtrati da una fonte anonima, che “dimostrano la natura simile a una prigione dei campi di rieducazione e mostrano il coinvolgimento diretto della leadership cinese nella campagna di internamento di massa”. Nei file ci sono istruzioni per la “rieducazione”, per gli interrogatori – anche di minori – e soprattutto ci sono le fotografie, scattate all’interno delle strutture, che mostrano le violenze e gli abusi a cui sono sottoposti gli uiguri internati.

 

 

 

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Mihriban Kader, suo marito e il suo figlio più piccolo, che all’epoca aveva un anno, sono arrivati in Italia nel 2016: “Ero al quarto mese della mia sesta gravidanza. Siamo stati costretti a scappare. Se si fosse vista la pancia non mi avrebbero fatto passare all’aeroporto”. Quando hanno deciso di andare via, non hanno pensato a tante cose, ci racconta Mihriban, che dice di ricordare il momento esatto in cui lei e suo marito hanno preso la decisione che avrebbe cambiato le loro vite. “La polizia ci chiama periodicamente, al massimo ogni tre mesi, per una visita ginecologica obbligatoria. Puoi non andare una volta, ma poi ti vengono a cercare, ti tolgono i documenti”, dice la signora Kader. Per quasi quarant’anni Pechino ha portato avanti una rigorosa quanto brutale politica di controllo delle nascite: la famigerata politica del figlio unico è stata abolita meno di una decade fa, ma restano limitazioni sul numero di figli che si possono fare. Nelle aree islamiche dove la religione non prevede contraccezione e l’aborto è vietato il controllo e la violenza sono ancora più forti, anche se il limite di figli nello Xinjiang è fissato a tre.  Mihriban e suo marito nel 2016 avevano già quattro figli. Per il quarto figlio avevano pagato la multa, per il quinto figlio erano stati costretti a pagare una multa più salata. Per il sesto figlio, secondo le regole, non si poteva chiudere un occhio: c’era solo l’aborto. Molti uiguri in questi casi scappano in Turchia, un paese islamico geograficamente vicino e dove si parla una lingua simile.  

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Mihriban e suo marito decidono di essere più discreti, e scelgono un paese anomalo per le rotte di chi scappa. Un paese democratico, membro del G7, con una forte politica familiare e dove la scusa del turismo regge: l’Italia. Arrivano a Fiumicino, tramite alcune associazioni d’accoglienza riescono a fare la richiesta d’asilo, e poco dopo inizia il calvario. La famiglia di Mihriban viene periodicamente interrogata, costretta a telefonare ai parenti fuggiti in Italia per chiedergli di tornare – uno dei metodi impiegati dalla Cina per far cambiare idea ai suoi dissidenti è la coercizione usando lo strumento familiare. I quattro minorenni vengono affidati alle cure dei nonni, i genitori di Mihriban Kader. Sono anziani, e nonostante questo vengono periodicamente deportati nei campi o in ospedale. A un certo punto i bambini si ritrovano completamente soli. E allora, presa dalla disperazione, la famiglia Kader fa l’ultimo tentativo. “Gli abbiamo detto: dovete fare una passeggiata. Non potete portare niente con voi”. Era il giugno del 2020. Da Priverno, la famiglia riesce a recapitare un cellulare ai quattro bambini e un biglietto aereo per Shanghai. Da lì, l’idea era quella di farli arrivare al consolato italiano – l’ambasciata italiana di Pechino sarebbe stata troppo esposta ai controlli – per ritirare i visti per Roma. I ragazzi riescono ad arrivare nella città più popolosa di Cina, da soli, senza mai essere usciti in vita loro dallo Xinjiang. Dopo l’anticamera, però, il consolato risponde: dovete andare a Pechino.  E qui c’è il problema umanitario che diventa giuridico. Parlando con il Foglio, l’attuale avvocato della famiglia Kader, Loredana Leo, che da anni si occupa di immigrazione, spiega che non c’è prova che i visti all’epoca erano stati richiesti. Il consolato italiano di Shanghai non ha risposto al Foglio a una richiesta di commento, ma il periodo è quello del Covid, quindi è possibile presumere che quando i quattro figli di Mihriban Kader arrivano lì, trovano un ufficio ridotto ai servizi essenziali.  L’avvocato  Leo dice che ora “tutto quello che potevamo fare dal punto di vista giuridico è stato fatto”. I visti per i figli  di Mihriban Kader sono lì, pronti, “il problema è farli uscire”. Dalla prigione che chiamano scuola, dallo Xinjiang, dalla Cina, da un mondo che non li vuole. 

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