Il presidente americano Joe Biden (foto LaPresse)

Sul petrolio l'Arabia Saudita lascia solo Biden. A rischio il deal iraniano

Luca Gambardella

Riad e Dubai dettano le loro condizioni per aumentare la produzione di greggio, mentre la Russia tiene in ostaggio l'accordo con l'Iran. L'America rischia una figuraccia

Guerra in Ucraina, sanzioni alla Russia, nucleare iraniano, guerra in Yemen, prezzi energetici: sulla scrivania di Joe Biden, i dossier delle principali crisi mondiali si intrecciano fra loro pericolosamente. Per quanto il segretario di stato Antony  Blinken si dica “sorpreso” perché a suo avviso la guerra di Vladimir Putin in Ucraina “non ha nulla a che vedere con il nucleare di Teheran”, gli eventi sembrano dimostrare il contrario. La mossa di  Stati Uniti e Gran Bretagna di bloccare le importazioni petrolifere dalla Russia sarà sostenibile nel breve periodo se accompagnata da un aumento della produzione del petrolio da parte dei paesi del Golfo, gli unici oggi in grado di farlo. In alternativa, il raggiungimento della soglia dei 200 dollari al barile, su cui scommettono già da giorni i mercati, potrebbe diventare una drammatica realtà. 

   

 

Ma è proprio lì, fra le capitali del Golfo Persico, che Biden rischia di arenarsi. Il Wall Street Journal ha scritto che sia Mohammad bin Salman, principe ereditario saudita, sia Mohammed bin Zayed al Nahyan, sceicco emiratino, hanno declinato la richiesta di una telefonata con il presidente americano. L’oggetto della conversazione sarebbe dovuto essere il petrolio.  Biden vorrebbe che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti aumentino la produzione per scongiurare un ulteriore aumento sconsiderato dei prezzi. Il rifiuto delle monarchie del Golfo, riferiva una fonte al quotidiano americano, sarebbe condizionato a una serie di richieste: più sostegno nella guerra in Yemen contro gli sciiti Houthi foraggiati dall’Iran, appoggio per lo sviluppo di un piano nucleare a scopi civili, immunità per il principe bin Salman, che negli Stati Uniti è coinvolto in diverse indagini, inclusa quella per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018. Insomma, ora che americani ed europei hanno disperatamente bisogno di loro, le monarchie del Golfo sanno di essere in una posizione di forza e vogliono imporre le loro regole. Una su tutte: sostegno reciproco contro l’Iran. Per ora si tratta. Oggi l’ambasciatore emiratino a Washington, Yousef al Otaiba, ha detto al Financial Times che Dubai è pronta a discutere un aumento della produzione di petrolio in seno all'Opec e subito i mercati hanno reagito favorevolmente. Potrebbe essere la leva per convincere anche i vicini sauditi. Il mese scorso, una delegazione americana è volata a Riad per parlare di Yemen e nucleare mentre un ipotetico viaggio di Blinken previsto per la primavera è stato smentito dalla Casa Bianca, almeno per il momento. Nel 2020 Biden è stato eletto promettendo che l’Arabia Saudita “avrebbe pagato per essere uno stato paria”, condannando gli abusi dei diritti umani perpetrati da bin Salman, sia in patria sia nella guerra in Yemen. Rimangiarsi quelle parole potrebbe arrecare un danno considerevole per la sua immagine.     

 

 

Nel frattempo, il presidente americano deve risolvere con ancora più urgenza la questione dell’accordo sul nucleare iraniano. Nei suoi piani, l’intesa con Teheran dovrebbe riguardare anche il petrolio. In cambio di riportare l’arricchimento dell’uranio a standard accettabili – al momento, con il 60 per cento di arricchimento, l’Iran sarebbe a poche settimane dall’obiettivo di dotarsi della bomba atomica – gli iraniani otterrebbero la rimozione delle sanzioni e il libero accesso al mercato del petrolio. Con oltre due milioni di barili al giorno prodotti da Teheran il prezzo del greggio resterebbe entro limiti contenuti. In tal senso, le aspettative maggiori sono quelle degli europei, che ricevono da Mosca il 45 per cento delle forniture di combustibili fossili. 

 

Ma i russi vogliono che Stati Uniti e alleati paghino a caro prezzo la loro guerra economica. Così il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha ostacolato i piani di Biden. “Le sanzioni non devono  impedire in alcun modo i nostri liberi commerci con l’Iran. Vogliamo una garanzia scritta su questo punto”, ha avvertito. Martedì, il capo della delegazione iraniana,  Ali Bagheri Kani, ha abbandonato il tavolo delle trattative di Vienna per rientrare a Teheran. Ufficialmente si è trattato di un rientro in patria per “consultazioni”, ma Enrique Mora, capo della delegazione europea, ha confermato che tutto è fermo: “Non ci sono in programma nuovi incontri al livello di esperti”, manca ancora “un accordo politico, il resto è solo rumore”. Oltre a sedere al tavolo dei negoziati, la Russia ha anche un ruolo logistico essenziale, perché è l’unica a essersi resa disponibile a smaltire l’uranio arricchito dell’Iran. Congelare adesso 11 mesi di trattative quando erano a un passo dalla conclusione – sembrava che per l’accordo finale fosse solo questione di giorni – è un colpo grave per la diplomazia americana, che ora sembra in una posizione di debolezza e non riesce più a dare l’accelerazione che invece sarebbe vitale, soprattutto per le economie degli alleati europei. Per ora, il deal iraniano è ostaggio di Mosca. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.