(foto EPA)

L'impatto della guerra sull'Asean spiega molto anche della Cina

Massimo Morello

I paesi del sud-est asiatico si sono mossi in maniera diversa nei confronti del conflitto in Ucraina. Ecco perché (c'entra anche Pechino)

Bangkok. Per comprendere la reazione delle nazioni del sud–est asiatico (riunite nell’Asean) all’invasione russa dell’Ucraina e il voto espresso il 2 marzo alle Nazioni Unite sulla risoluzione che richiedeva un immediato ritiro delle forze russe dall’Ucraina e condannava l’aggressione russa, bisogna tornare al dicembre 1941. Per capire ancor meglio è consigliabile la lettura di “The New Asian Hemisphere” di Kishore Mahbubani, il teorico singaporeano del “Secolo asiatico”.

Nel dicembre 1941 le truppe giapponesi entrarono in Thailandia “chiedendo” il transito per la Birmania e la Malesia, allora colonie britanniche. Dopo una breve resistenza, il governo thai scelse l’alleanza col Giappone e nel gennaio 1942 dichiarò guerra agli Stati Uniti. Ma l’allora ambasciatore thai a Washington, il nobile Seni Pramoj, si rifiutò di consegnare la dichiarazione creando il presupposto per una sorta di “assoluzione” thailandese nel 1945. Ogni memoria di quell’alleanza fu poi cancellata dalla storia quando la Thailandia divenne il baluardo dell’Occidente contro l’avanzata comunista in sud-est asiatico.

Sarebbe più saggio mantenere una mente aperta e sfidare ogni presupposto ideologico incorporato nelle nostre menti. Il pragmatismo è il miglior spirito guida che possiamo avere per avventurarci nel nuovo secolo. E’ quindi appropriato citare ancora una volta il più grande pragmatista del ventesimo secolo, Den Xiapong: “Non importa se il gatto è bianco o nero. Se caccia il topo è un buon gatto’”. Così ha scritto Mahbubani come guida a un mondo che definisce non fluido bensì “plastico”. 

Il 2 marzo la Thailandia ha votato a favore della risoluzione Onu. Ma nella dichiarazione in cui si precisava la posizione thailandese non è mai menzionata la Russia. “La Thailandia è gravemente preoccupata per il peggiorare delle ostilità e della violenza come risultato dell’uso di forze militari in Ucraina”, ha scritto Suriya Chindawongse ambasciatore thai alle Nazioni Unite. Si conferma la linea espressa dal primo ministro thai, il generale Prayut Chan-ocha (al potere dal colpo di stato del 2014): in seguito all’invito di 25 ambasciatori che chiedevano una posizione contro l’intervento russo, ha ribadito la volontà del suo governo di mantenersi neutrale.  

La posizione thailandese appare coerente con quella delle altre nazioni dell’Asean (a eccezione di Singapore). Già nella dichiarazione dei ministri degli esteri Asean del 26 febbraio, si esprimeva preoccupazione e dolore per la violenza invitando le parti a un accordo. Il tutto senza che appaia mai la parola Russia. Ma le contraddizioni e i conseguenti dubbi geopolitici sono apparsi soprattutto nella risoluzione delle Nazioni Unite. Dei dieci paesi dell’Asean otto, Brunei, Cambogia, Indonesia, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore e Thailandia hanno votato a favore e due si sono astenuti: Vietnam e Laos.   

La prima sorpresa, facilmente spiegabile, è il voto del Myanmar, considerando che la giunta militare al potere dal febbraio dello scorso anno è l’unica nazione Asean ad essersi schierata con la Russia (che è il suo maggior alleato, non la Cina). Ma a votare nell’assemblea Onu è stato Kyaw Moe Tun, ambasciatore designato dal precedente governo democraticamente eletto. Più complesso decodificare il voto della Cambogia. Dalla più allineata alla politica di Pechino c’era da aspettarsi che avrebbe seguito il suo esempio nell’astensione. “La Cambogia non sta con la Cina, sta con la Cambogia” spiega una fonte del Foglio a Phnom Penh. “Forse in questo momento Hun Sen vuole rimediare al suo fallimento nella mediazione col Myanmar. O forse conosce meglio di noi quello che vuole Pechino”. 

Altrettanto complessa la posizione di Singapore, che ha annunciato sanzioni contro la Russia, addirittura in campo bancario e finanziario. Sembrerebbe allontanarsi dal pragmatismo predicato da Mahbubani, mentre ne è l’evoluzione. Il governo del premier Lee, probabilmente, non crede più che la neutralità possa essere uno scudo per le nazioni più piccole, né che ci si possa affidare alla protezione di un indiscriminato segreto bancario. Come spiega Ravi Velloor, condirettore dello Straits Times, bisogna cercare una soluzione asiatica che sia alternativa all’occidente, alla Cina e alla Russia. Ossia l’Asean, intesa come gruppo di garanzia internazionale con interessi condivisi, un Asean rinnovato di cui Singapore sarebbe il fulcro saldamente appoggiato dalla più grande nazione dell’Associazione, l’Indonesia. 

L’astensione di Laos e Vietnam si spiega in entrambi i casi con i legami storici con la Russia, anzi con l’Unione sovietica. Nel caso del Vietnam, poi, la Russia resta il suo maggior fornitore d’armi, compresi quei sottomarini che potrebbero rivelarsi fondamentali nell’opporsi alla Cina nel Mar cinese meridionale.  Le rivendicazioni cinesi sulle acque di quello che definiscono il loro Mediterraneo, del resto, sono una delle preoccupazioni maggiori di molti paesi dell’Asean – oltre il Vietnam anche le Filippine, la Malaysia, il Brunei – che hanno influenzato il voto sulla risoluzione Onu per l’Ucraina. Il rischio di contagio appare remoto ma, come diceva ironicamente un funzionario del centro antipirateria di Kuala Lumpur: “Better safe than sorry”. 

Il voto favorevole degli altri paesi dell’Asean, tuttavia, come s’è visto con la Thailandia, è stato accompagnato da molti distinguo, sottigliezze, reticenze. La loro è una neutralità mascherata, tale soprattutto perché legittimata dall’astensione cinese. Probabilmente, se la Cina avesse votato contro la risoluzione Onu, si sarebbero astenuti. Come osserva Sebastian Strangio del Diplomat, “è una conseguenza della riflessiva cautela diplomatica della regione”. Bisogna anche ammettere che alcune nazioni del sud-est asiatico potrebbero semplicemente considerare la crisi ucraina come remota e non direttamente rilevante per i loro interessi. 

Nel frattempo, gli Stati Uniti cercano di rimediare alla politica di distacco dal sud-est asiatico iniziata col ritiro trumpiano dalla Trans Pacific Partnership (causa di una profonda frattura col Vietnam), proseguita con la scarsa attenzione per l’Asean dimostrata da Biden e confermata nel documento “The Indo-Pacific Strategy of The United States” rilasciato il 12 febbraio. La politica reginale vi è delineata con superficialità rispetto ad accordi come l’Aukus (Australia–Uk–Usa) e il Quad (Usa–Giappone–India–Australia) imperniati sulla strategia americana. Il meeting con i rappresentanti dell’Asean organizzato a Washington per il 28–29 marzo dovrebbe segnare una tappa nel percorso per raggiungere quello che Mahbubani definiva “una comune comprensione della natura di questo nuovo mondo”. Ma era il 2008. E il mondo diventa sempre più un Mondo Nuovo.

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