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A Washington

Perché Biden ha scelto Ketanji Brown Jackson alla Corte Suprema

Luciana Grosso

Se confermata, sarà la prima donna afroamericana tra i nove giudici supremi. Ha un buon consenso tra i democratici e una storia giuridica abbastanza unica e battagliera

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Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, ha indicato Ketanji Brown Jackson, 51 anni, per prendere il posto vacante alla Corte Suprema dopo le dimissioni del giudice Stephen Breyer. Se confermata, sarà la prima donna afroamericana a occupare un posto alla Corte.

    

Al di là di alcune note di colore che hanno a che fare con la sua famiglia (uno zio era capo della polizia di Miami; un altro ha avuto precedenti penali per cocaina; il marito è parente alla lontana dell’ex speaker repubblicano Paul Ryan), la nomina di Jackson è stata orientata soprattutto da ragioni politiche e giuridiche.

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Quelle politiche hanno a che fare soprattutto con il fatto che, già pochi mesi fa, quando Biden l'aveva proposta per l’incarico di giudice alla potente e influente Corte d'Appello di Washington DC, Jackson aveva superato il voto del Senato (ottenendo il placet di tutti i democratici, anche quelli più progressisti, e di tre repubblicani). Un precedente che potrebbe essere un balsamo per i complicati equilibri parlamentari di questa fase della presidenza.

  

Le ragioni giuridiche, invece, hanno a che fare con la comprovata esperienza di Jackson come difensore pubblico, lavoro che Jackson ha svolto dal 2005 al 2007. Al momento, nessuno dei giudici supremi ha, nel suo curriculum, esperienze dal lato dei difensori, ma solo dalla parte dei persecutori e degli studiosi di diritto. L’ultimo ex difensore alla Corte Suprema è stato Thurgood Marshall (nominato da Lyndon Johnson,  primo afroamericano in assoluto a entrare nella Corte e rimasto in carica fino al 1991).

  

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Nel 2012, Brown Jackson fu nominata da Barack Obama alla Commissione per le sentenze degli Stati Uniti, un organismo indipendente di sette membri (tutti di nomina presidenziale, confermati dal Senato) che si occupa di stabilire le linee guida per le sentenze che possono essere emesse riguardo ogni reato. In quel ruolo Brown Jackson ha lavorato al discusso "Drugs Minus Two Amendment" un testo che di fatto disciplinava (in molti casi riducendole) le pene riguardanti la droga. All’epoca, il "Drugs Minus Two Amendment" fece molto scalpore perché si trattava di una decisione con effetti retroattivi, cosa che consentì a circa 12 mila detenuti, di ottenere una riduzione della pena che già stavano scontando e a 1.800 di ottenere il rilascio immediato).

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In anni più recenti, Jackson ha creato non pochi grattacapi all'amministrazione Trump,  in particolare quando, nel 2019, da giudice della Corte federale distrettuale di Washington, respinse la richiesta del consigliere di Trump, Donald McGahn, di non poter essere chiamato a testimoniare davanti alla Commissione giudiziaria della Camera in merito ai tentativi di Trump  per ostacolare le indagini sul Russiagate. Nella risposta di 120 pagine con la quale Brown Jackson respingeva la richiesta di McGahn, i giornali notarono la frase: “Il principale lascito degli ultimi 250 anni di storia americana è che i presidenti non sono re".

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