L'immagine del presidente turco Recep Tayyip Erdogan su una parete all'interno di un ufficio di cambio a Istanbul (foto Ansa)

Qui Ankara

La crisi della lira turca è un fenomeno acuto di un problema cronico

Riccardo Trezzi

Negli ultimi 20 anni la moneta si è deprezzata rispetto alle valute dei principali partner commerciali a un tasso medio annuo del 24 percento. E le recenti politiche economiche adottate da Erdogan hanno aggravato la situazione

Il recente deprezzamento della lira turca ha suscitato attenzione mediatica più per il quadro istituzionale che in ottica storica. Nel dibattito attuale sfugge infatti che negli ultimi 20 anni la lira turca si è deprezzata rispetto alle valute dei principali partner commerciali a un tasso medio annuo del 24 percento. La figura di seguito mostra l’andamento del tasso nominale effettivo (ovvero il valore indice della lira turca nei confronti di tutte le divise dei paesi con i quali intrattiene rapporti commerciali). Esclusi gli anni precedenti la grande recessione, il deprezzamento della lira turca non ha conosciuto pausa tanto che a fine 2021 il suo potere d’acquisto era stimabile in quindici volte inferiore rispetto ad inizio 2002.
 

(Fonte: BIS – dati sui tassi di cambio nominali effettivi, gennaio 2002 – dicembre 2021) 

 

L’attuale crisi della lira è quindi definibile come un fenomeno acuto su un problema cronico che trova le proprie origini nei problemi strutturali dell’economia. Tali problemi sono stati aggravati dalle recenti azioni di politica economica, incomprensibili alla comunità degli economisti. Dal 2002 al 2020 la Turchia ha avuto un tasso d’inflazione medio annuo del 12,5 percento ed ha avuto un saldo negativo di partite correnti con l’estero di quasi 4 punti percentuali di prodotto interno lordo all’anno. In altri termini, da un lato il tasso di cambio è stato messo costantemente sotto pressione dalla perdita di competitività dei prezzi relativi. Dall’altro, la Turchia ha sviluppato una dipendenza cronica di flussi di moneta estera, necessari sia per finanziare le alte importazioni, sia per intervenire quando necessario a difesa della lira.

In questo quadro macroeconomico si instaurano le vicende più recenti. La Turchia ha, come quasi tutti i paesi al mondo, pagato un alto prezzo economico (e umano) alla pandemia. Ma le autorità di Ankara hanno risposto all’iniziale contrazione dell’attività economica con una espansione della base monetaria seconda solo all’Argentina tra i paesi emergenti. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale (Fmi), l’espansione della liquidità primaria (M1) nel terzo trimestre del 2020 risultava pari a circa 90 punti percentuali (per avere un raffronto, nello stesso periodo l’espansione della liquidità primaria in Cina è stata di meno del 10 percento). Alla luce di quanto detto, non sorprende che il Fmi  ammonisse nell’ultimo rapporto datato giugno 2021 che le politiche messe in atto durante la pandemia avessero finito con l’esacerbare le vulnerabilità pregresse: alta inflazione, dollarizzazione crescente, pressione sulle partite correnti e riserve di valuta estera su bassi livelli e in calo. E non sorprende nemmeno che la Banca centrale turca sotto la guida del precedente governatore avesse intrapreso una stretta monetaria alzando il tasso di riferimento al 19 percento nel tentativo di frenare l’inflazione e mettere freno alla perdita di riserve.

 

Inaspettatamente però il presidente Erdogan ha prima rimosso il governatore della Banca centrale e poi imposto una politica monetaria espansiva (opposta quindi a quanto prescritto dai manuali di economia poiché tende a generare inflazione ed aiuta il deprezzamento della lira). Tralasciando le incomprensibili argomentazioni addotte da Erdogan, l’ultimo capitolo di questa vicenda è tristemente noto: il 20 dicembre la lira turca è arrivata a toccare -46 percento rispetto ai livelli di inizio ottobre sul dollaro americano.

 

La lezione della storia ci dice che le leggi economiche valgono per i paesi emergenti quanto per quelli industrializzati. La preoccupante realtà per la Turchia è che la stabilità futura della lira poggia su uno strato di ghiaccio sottile. Il mix di politiche messe in atto (incluse le nuove misure eterodosse) può risultare efficace solo se credute da una larga parte degli agenti che però, stando ai dati degli ultimi giorni, continuano ad anticipare deprezzamenti futuri finendo così con l’aggravare le pressioni ribassiste. Le autorità hanno ancora qualche spazio di manovra fiscale e le previsioni catastrofiste al momento non sembrano essere le più probabili. Ma i problemi strutturali e la situazione congiunturale richiederebbero riforme profonde e il ritorno di politiche economiche sensate, pena continuare a ottenere gli stessi risultati degli ultimi decenni. L’unica speranza è che le autorità ammettano la realtà e tornino sui propri passi. Ma su quest’ultimo punto rimaniamo fortemente scettici. 

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