Lukashenka ha già raggiunto tre obiettivi. Ecco quali

Micol Flammini

Con la telefonata di Merkel il dittatore bielorusso si è preso una gran soddisfazione. Punta al riconoscimento internazionale, a non sentir più parlare di valori democratici e a sanzioni che non lo buttino giù. Una chiacchierata con Pavel Slunkin 

Lungo il confine tra Unione europea e Bielorussia c’è una crisi umanitaria orchestrata dal dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenka, un presidente non eletto ma che si è preso la carica con la prepotenza e che non accetta le rimostranze dei suoi vicini, gli europei, che con questa usurpazione non sono d’accordo. Lukashenka vuole mantenere il potere a ogni costo, e non ha paura ad aumentare la tensione con l’Ue. Perché lo fa? Perché non soltanto vuole la Bielorussia per sé, ma vuole anche che gli altri lo riconoscano come legittimo presidente, cosa che l’Ue non ha fatto. “Durante gli ultimi voti la strategia del riconoscimento passava attraverso la liberazione dei prigionieri politici”,  dice al Foglio Pavel Slunkin, oggi esperto dello European Council on Foreign Relations, che ha lavorato anche per il ministero degli Esteri di Minsk. “All’epoca però controllava ancora la nazione, ora invece il 60 per cento della popolazione non lo vuole più e il 70 vorrebbe nuove elezioni. Quindi ha cambiato strategia”. La strategia è quella che seguiamo da agosto del 2020, è fatta di violenza per le strade,  di arresti e processi sommari. Per rimanere in piedi, Lukashenka ha trasformato la nazione “in un campo di prigionia”: centinaia di migliaia di persone sono in carcere, altrettante sono fuggite. Sa che quanto ha fatto è inaccettabile per l’Ue, ma vuole essere ugualmente riconosciuto e se gli europei non sono pronti a farlo, allora lui è pronto a costringerli. Questo è il senso della crisi che ha creato al confine. 

Lukashenka ora punta a essere riconosciuto presidente dall'Ue

Martedì i media bielorussi, molto attivi nel fare propaganda, sono impazziti. Lukashenka ha ricevuto la telefonata della cancelliera tedesca Angela Merkel e i due sono stati al telefono per cinquanta minuti. Minsk ne ha dato notizia immediatamente, Berlino ha confermato dopo un po’. Il senso di esaltazione era dovuto al fatto che dalle elezioni rubate, i leader occidentali non avevano rivolto parola a Lukashenka, lo avevano fatto soltanto tramite Vladimir Putin, il presidente russo, e il motivo per cui non lo avevano fatto si spiega con facilità: chiamarlo poteva sembrare un riconoscimento. “Con la telefonata di Merkel, Lukashenka ha parzialmente ottenuto quello che voleva. La cancelliera ha chiamato un leader che non riconosce, lo ha ascoltato mentre lui presentava le sue richieste, Lukashenka ha pensato che il ricatto dei migranti ha funzionato”. A suggerire agli europei di parlare  con il dittatore bielorusso era stata proprio la Russia. Era stato un suggerimento interessato, volto a costringere gli europei a un sacrificio: parlare con un presidente che non riconoscono, abbassarsi a trattare con lui e la Merkel ha accontentato sia Mosca sia Minsk.  “Lukashenka – dice Slunkin – aveva tre obiettivi. Il primo era fare in modo che l’Ue  si rivolgesse a lui, dedicasse del tempo a colui che definisce illegittimo. Merkel gli ha parlato. Il secondo è che l’Ue abbandoni tutte le sue richieste sullo stato della democrazia in Bielorussia, vuole che si distragga da quello che avviene dentro ai confini, la smetta di parlare di prigionieri politici e di nuove elezioni. La crisi al confine è stata creata per allontanare lo sguardo dalle prigioni di Minsk e con la cancelliera infatti si è parlato soltanto di migranti. Il terzo obiettivo è dimostrare che lui, Lukashenka, è pronto a tutto pur di evitare nuove sanzioni, o quanto meno evitare sanzioni forti come quelle che sono state imposte dopo il dirottamento del volo Ryanair. Il messaggio all’Ue è: volete colpirmi? Io smetterò di proteggere i vostri confini. Ma questo è falso, Lukashenka non ha mai protetto i confini, la Bielorussia non è mai stata una rotta percorsa dall’immigrazione illegale, quanto sta accadendo è stato creato artificialmente”. Secondo Slunkin, questi tre obiettivi sono stati raggiunti, almeno parzialmente. 

 

Slunkin ha partecipato agli accordi di Minsk, le trattative per risolvere la crisi in Ucraina e mentre l’attenzione dell’Ue è concentrata sul suo confine, alla frontiera orientale di Kiev sta aumentando il numero di truppe russe. “E’ un tentativo da parte di Mosca di fare pressione sul governo ucraino, voci che arrivano dalla Russia raccontano che il Cremlino teme che l’esercito regolare di Kiev sia pronto ad avanzare nel Donbass, la regione in cui ci sono le due repubbliche separatiste filorusse di Lugansk e Donetsk. Mosca vuole mantenere lo status quo e la presenza delle truppe è un messaggio: se avanzate, noi siamo pronti”. Di soluzioni è difficile parlare, dice Slunkin, per ora le strade sono due: o che la situazione si congeli oppure altre discussioni. La Francia ha detto che è pronta a reagire in caso di aggressione dell’Ucraina, la Svezia vuole  mandare un contingente militare per fare addestramenti congiunti con gli ucraini. Ma tutto rimane immobile. E’ il destino di molti  conflitti nati dalla caduta dell’Unione sovietica, spiega Pavel Slunkin. Basti pensare all’Ucraina, ma se si guarda oltre, la stessa lezione si apprende in Transnistria, o ancora meglio nel Nagorno-Karabakh, dove ieri armeni e azeri hanno ricominciato a scontrarsi. 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.