Asimmetrie

Non c'è molto di speciale nella relazione tra Regno Unito e Stati Uniti

Mark Damazer

Johnson ha promesso una “Global Britain”, ma per ora di certo c’è solo che ha perso credibilità in Europa. E con l’America? La relazione non è mai stata simmetrica e Aukus non deve ingannare: l’interesse di Biden è scarso

“Global Britain” è il grido di battaglia dei brexiteers. Sì, suona bene e suona grandioso per una nazione insulare un tempo a capo di un enorme impero, della più grande marina del mondo e del più grande centro finanziario, e che ha ancora l’immenso vantaggio della lingua inglese. Perché preoccuparsi di qualcosa di così banale come l’appartenenza all’Unione europea – solo 27 paesi – quando ci si può definire in modo molto più ampio facendo riferimento a qualcosa di molto più allettante: l’intero globo? Ma più di cinque anni dopo il referendum sulla Brexit, i politici, i diplomatici, gli strateghi militari e i funzionari pubblici britannici stanno tutti discutendo per cercare di definire che cosa significhi esattamente, o anche vagamente, “Global Britain”.

 

È vero che ora sappiamo una cosa importante: non siamo più una grande potenza dell’Unione europea. Quindi questo è un inizio. E se siete ottimisti potreste indicare il patto di difesa e sicurezza Aukus siglato il mese scorso, che ha proposto legami più stretti nella regione dell’Asia-Pacifico tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito. L’incandescente risposta francese a quell’accordo non ha fatto altro che aumentare la soddisfazione dei molti che hanno votato per la Brexit. Infastidire i francesi può essere divertente, persino una specie di passatempo nazionale, ma questo è stato l’ultimo di una serie di scontri post Brexit tra Gran Bretagna e Francia e potremmo finire per chiederci se far parte di Aukus valga davvero la pena se danneggia le relazioni anglo-francesi. Possiamo divertirci a fare commenti sgarbati sui francesi, ma quando siamo seri sappiamo quanto abbiamo bisogno di andare d’accordo con il nostro vicino più vicino, con il quale abbiamo anche avuto un importante rapporto sulla difesa – che ora ha un buco a forma di Aukus in mezzo.

La logica dei sostenitori della Brexit era che i rapporti con i 27 paesi non sarebbero peggiorati o che, anche se si fossero deteriorati, avremmo guadagnato potere e influenza stabilendo connessioni più fruttuose con una serie di altri paesi non europei. E ci sarebbe stato un bonus: una volta liberato da tutti i disordinati compromessi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, il leone britannico avrebbe ritrovato la sua voce autentica. Ed è vero che la voce dell’Unione europea è raramente emozionante. Non sono solo i brexiteers che fanno notare che l’Ue non è riuscita a ideare politiche coerenti, su questioni così intricate come il commercio con la Russia, le violazioni dei diritti umani in Cina o anche cosa fare riguardo al cattivo comportamento dei suoi membri – in Ungheria o Polonia. Ma – sorpresa, sorpresa – la voce della Gran Bretagna non risuona più forte nel mondo ora che siamo usciti dall’Unione europea. E nonostante l’accordo Aukus, questo giudizio si applica anche alle relazioni con il nostro alleato numero uno: gli Stati Uniti. Per decenni la Gran Bretagna, sia all’interno dell’Unione dia al di fuori, ha rivendicato una “special relationship” con Washington. Il termine fu coniato da Churchill verso la fine della Seconda guerra mondiale e questo, almeno per i britannici, conferisce un ulteriore grado di risonanza, anche se era ovvio per il mondo intero che ormai l’America fosse la potenza mondiale per eccellenza e che la Gran Bretagna avesse da tempo perso la sua leadership. Il termine non è del tutto privo di significato.

È certamente vero che ci sono legami di cultura, lingua e storia che danno il via a molte conversazioni tra britannici e americani e, più precisamente, ci sono legami di difesa, intelligence e sicurezza che a volte sono importanti per entrambe le parti. Questo tipo di connessioni sono spesso nascoste, il che non significa sminuire la loro importanza: è che non sempre funzionano. Gli americani sembrano aver prestato poca attenzione agli inglesi quando hanno ideato il caotico ritiro dall’Afghanistan, lasciando l’establishment della difesa britannico sbalordito e il governo sconcertato. Ci sono stati momenti in cui le stesse grandi potenze europee credevano che ci fosse qualcosa di speciale nella relazione anglo-americana.

Fu la nostra apparente vicinanza agli americani che ritardò di un decennio la nostra adesione al mercato comune. De Gaulle pensava che le connessioni anglo-americane avessero un significato maligno tale da tenere la Gran Bretagna fuori da quello che allora era il mercato comune. Si temeva che nel momento di una crisi la Gran Bretagna avrebbe sacrificato quelle che altrimenti sarebbero state posizioni europee comuni in favore del desiderio di coccolare gli americani. Ma dieci anni dopo il primo veto di De Gaulle, ci fu permesso di entrare. Ted Heath, il primo ministro conservatore selvaggiamente filo europeo, aveva convinto i francesi che, dopo tutto, ci si poteva fidare di noi. Oserei dire che molti politici francesi di tutti gli schieramenti ora pensano che De Gaulle avesse ragione su tutto. Ma per i quarantasette anni in cui siamo stati membri dell’Unione europea (o delle sue precedenti manifestazioni) il presupposto – ampiamente sostenuto da tutti i principali partiti politici quando erano al governo – era che avremmo potuto svolgere un ruolo unico e virtuoso nelle relazioni transatlantiche aiutando gli americani a capire gli europei e viceversa. Dovevamo essere un ponte o un “interprete transatlantico”. Questa interpretazione del nostro ruolo ci faceva sentire bene, ma era sempre un po’ gonfiata e un po’ paternalistica.

Gli americani avevano molti modi di parlare con gli europei (che per lo più parlavano un ottimo inglese) senza bisogno di alcuna copertura derivante dal potere o dalla competenza britannica. E tutto ciò che presuppone un grande ruolo del Regno Unito nella traduzione (come nella metafora dell’interprete) dovrebbe essere ridimensionato dato il nostro atroce record nell’apprendimento delle lingue straniere. Tuttavia, la teoria era che, poiché saremmo stati “nella stanza” con gli altri 27 paesi dell’Ue, eravamo ben posizionati per calibrare le preoccupazioni americane e potevamo scegliere di amplificarle – per esempio sulla spesa per la difesa (dove gli europei riescono a deludere tutti i presidenti americani, non solo Donald Trump) – o sulla politica antiterroristica o sul riciclaggio di denaro o sul medio oriente. Ma misurare questo tipo di influenza è un lavoro difficile. Ed è più facile ricordare il momento chiave in cui il tentativo di “tradurre” l’America all’Ue si è trasformato in cenere – la guerra in Iraq nel 2003. Tony Blair, oltre a Heath il primo ministro più eurofilo nella storia del dopoguerra britannico, non riuscì a convincere gli europei ad andare in guerra. E così affrontò una scelta gigantesca: prendere una posizione comune con le altre grandi potenze europee e aspettare di vedere se ci fossero prove concrete delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, o dimostrare agli americani che avevamo davvero una “relazione speciale” con loro, che eravamo i migliori alleati, e dichiarare guerra sulla base di quella che si dimostrò essere una pessima intelligence.

 

Come tutti sappiamo Blair scelse la seconda strada e con quella fatidica decisione perse un’enorme quantità di potere e prestigio sia nel Regno Unito sia nell’Ue. Fu una scelta più difficile di quanto molti dei suoi critici vogliono far credere e non fu d’aiuto il fatto che i suoi rapporti con due degli attori chiave, Jacques Chirac e Gerhard Schröder, si erano inaspriti. Ma avrebbe potuto comunque tirarsi indietro. Il presidente Bush gli aveva detto che non c’era bisogno che la Gran Bretagna inviasse le sue truppe: l’America avrebbe potuto vincere la guerra senza di noi. Ma Blair non accettò l’offerta. Sostenuto dal Partito conservatore all’opposizione e dalla maggior parte dei suoi stessi parlamentari, preferì mostrare una cospicua solidarietà con gli americani rispetto a ciò che si dimostrò essere uno scetticismo europeo del tutto giustificato. Quella scelta rese Blair una specie di eroe in gran parte degli Stati Uniti, ma non ha cambiato la palpabile asimmetria nella “relazione speciale”. Diciamolo chiaramente: noi non contiamo per loro quanto loro contano per noi. Questo è inevitabile e non c’è nulla di cui vergognarsi. L’America ha la popolazione, il potere militare, il peso economico, la valuta di riserva mondiale – e molto altro. Ha interessi strategici davvero in tutto il mondo. Ma a volte gli americani si dimenticano di dire che siamo i loro migliori amici. Il presidente Obama, guardando indietro ai suoi otto anni in carica, ha descritto Angela Merkel come il suo alleato più stretto – ouch! E se perlustraste le sezioni sugli affari esteri delle memorie presidenziali statunitensi, o delle biografie presidenziali, trovereste poco sulla “relazione speciale” con la Gran Bretagna. Hanno troppo altro che merita la loro attenzione.

È una verità scomoda per i fan della Brexit che i presidenti americani, tranne, ovviamente, Trump, volessero la Gran Bretagna nell’Unione europea piuttosto che fuori. Ma Theresa May, il primo ministro che ha cercato e non è riuscito a negoziare un accordo sulla Brexit, ha tratto poco conforto dalla retorica anti europea di Trump. Ha chiaramente trovato lui, e la maggior parte di ciò che ha rappresentato, spaventoso. Boris Johnson, il successore della May, desidera l’affetto dell’America e una nuova incarnazione della “relazione speciale”. Da quando ha guidato la campagna per la Brexit, sei anni fa, Johnson ha parlato di un accordo commerciale speciale tra America e Gran Bretagna. Il presidente Obama era stato notoriamente sprezzante nei confronti di una qualsiasi cosa di questo tipo. “Se la Gran Bretagna lasciasse l’Ue – disse nel 2016 – sarebbe in fondo alla coda per qualsiasi accordo commerciale con l’America”. Trump ha fatto alcune dichiarazioni leggermente incoraggianti al riguardo, ma lo faceva in gran parte per infastidire gli europei. La questione probabilmente non figurava tra le prime duecento delle sue priorità di politica estera. E il presidente Joe Biden non è altrettanto interessato. Johnson lo ha visto a Washington il mese scorso e sulla via del ritorno nel Regno Unito ha fatto ciò che gli riesce meglio: pronunciare parole di ottimismo sfrenato e buon umore che sono, in realtà, aria fritta.

È vero – l’incontro non è stato il disastro che avrebbe potuto essere, dato il profondo sospetto di Washington sul modo in cui Johnson sta gestendo la questione dell’Irlanda del nord nella Brexit. Ma al di là di questo, il meglio che Johnson ha potuto fare è stato rivendicare un successo perché Biden ha revocato il divieto di viaggio ai viaggiatori britannici che vanno in America, ignorando che abbia fatto la stessa cosa per l’intera Ue. E Johnson ha parlato dell’impegno di Biden, fatto prima del vertice sul clima Cop26 di fine mese (che Johnson ospiterà a Glasgow) di raddoppiare la spesa americana per il finanziamento globale per il clima – come se questa decisione fosse collegata ai poteri di persuasione di Johnson. Improbabile. Ma il patto commerciale con gli Stati Uniti – il magico ingrediente post Brexit – non si vede più. Uno dei ministri di Johnson ha finito per dover dire la verità: “Non stiamo fissando delle tempistiche. Semplicemente non è una priorità per l’Amministrazione americana”. Invece Downing Street ha lanciato l’idea che il Regno Unito possa negoziare l’ingresso in un accordo commerciale esistente tra Stati Uniti, Canada e Messico. Quell’idea è quasi viva, ma nessuno sta trattenendo il respiro per una svolta. Così, quasi due anni dopo aver lasciato l’Ue, abbiamo relazioni peggiori con molti dei nostri ex partner dell’Ue e nessun miglioramento significativo con nessun altro – certamente non con gli americani. Rimaniamo un’interessante potenza di seconda classe con alcune risorse preziose.

 

Abbiamo il prezioso vantaggio della lingua inglese, dello stato di diritto, un’economia più o meno grande – anche se non molto produttiva – alcune grandi università, un meraviglioso insieme di industrie creative, libere elezioni e molto altro. Si può aggiungere a questo elenco il nostro seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite se si desidera un ricordo delle nostre glorie passate e qualche potenziale status contemporaneo. I miei genitori non sono nati nel Regno Unito – sono venuti in seguito all’orrenda storia dell’Europa continentale – e sono contento che si siano stabiliti qui. Ma la vanagloria e l’arroganza che circondano gran parte della retorica britannica post Brexit sono ben lontani dal meglio di ciò che abbiamo da offrire. Dobbiamo crescere un po’.

 

Mark Damazer è stato vicedirettore di Bbc News, capo di Radio 4 della Bbc e poi nel Governing Body dell’emittente. Fino al 2019, è stato presidente del St Peter’s College di Oxford. Oggi è presidente della Booker Prize Foundation.